UNA MOLLA È PER SEMPRE

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presidente del Mollificio Bomoll Snc, Sant’Agata Bolognese (BO)

In questo numero della rivista discutiamo del tempo che interviene nel fare. Facendo, ciascuno giunge all’infinito del fare, fa molte cose in cui interviene la tolleranza dell’Altro. La tolleranza del tempo è la tolleranza del fare. Lei in che modo riscontra intolleranza rispetto al fare, per esempio, lungo la sua pratica nel settore immobiliare?

Noi diventiamo o raggiungiamo non ciò che desideriamo, ma ciò che tolleriamo, ciò in cui accettiamo di limitarci. Quando noi accettiamo ciò che ci sta attorno, quando accettiamo ciò che stiamo tollerando noi ci limitiamo. Nella nostra professione accade spesso che quando l’agente vuole raggiunge re uno standard – per esempio che il cliente paghi il 3% di provvigione – poi finisca per ottenerne al massimo il 2%, perché ha tollerato qualcosa come limite. La propria idea stabilisce una tolleranza intesa come limite al fare.

Io trovo che oggi in Italia vi sia poca voglia di fare. Certamente, spetta all’imprenditore guidare ciò che ha costruito, dal momento che assume il rischio d’impresa. Però, oggi l’azienda è sempre più costituita non da dipendenti che devono essere sollecitati a fare, come pesanti sacchi di patate da trascinare, ma da altri imprenditori, come sono i collaboratori con partita IVA. Quindi, ciascuno dovrebbe ave re quel piglio trainante essenziale per avanzare. Ma non è così.

A mio parere, la dote migliore di un imprenditore non è la capacità di rischiare, bensì le sue capacità di scegliere e di decidere. Ma esse implicano che non possa accontentare tutti. Steve Jobs diceva più o meno così: “Se vuoi fare felici tutti, non diventare un leader ma sii un gelato”.

Allora, per tornare all’esempio del sacco di patate, in alcuni casi occorre che i sacchi siano lasciati dove sono, aprendoli e prendendo una patata alla volta. In altre parole, occorre non limitarsi pensando che nella propria squadra tutti possano raggiungere gli stessi risultati, ma talvolta dobbiamo accettare che al gioco di squadra partecipi chi fa i goal e chi semplicemente è più bravo a passare la palla. Quello che noi possiamo fare è insegnare a passarla nel modo migliore.

Lei dice che ciascuno ha il proprio modo…

Per fare questo lavoro occorre essere imprenditori di se stessi e, quindi, non c’è un canone da seguire. Soprattutto nelle pubbliche relazioni ciascuno interagisce in modo specifico. Lei parla con me e interagisce con me in modo differente da come può fare con un’al tra persona. Per questo occorre valorizzare il proprio modo, perché è il modo in cui non ci sono limiti.

L’imperativo più diffuso, invece, spesso è: “Conosciti!”. “Conosci i tuoi limiti” è il leitmotiv del successo…

Conoscere i propri limiti corrisponde a farsi un’idea di sé, che è sempre limitante. “Io arrivo fin lì, non vado oltre”. E, allora, dove arriverai al massimo? Lì. Il mio mentore, che è stato anche un vogatore professionista, diceva sempre che ciascuno dei vogatori fa la propria gara. Il vogatore che è seduto avanti, se guarda quello dietro per paura che lo superi, non procede e perde terreno. Ciò avviene perché si sta limitando a guardare l’altro, invece di fare la propria gara. Occorre fare la propria gara, perché sarà quella gara che ci spingerà ad andare avanti, non guardare indietro.

Guardare indietro è fare riferimento all’idea di uguale, confrontarsi a partire dalla propria idea di parità ideale. Questo approccio è la base dell’intolleranza. Facendo, ciascuno fa in modo differente e vario. Nessuno fa in modo uguale a un altro.

Nella scorsa riunione con i miei col laboratori facevo un esempio, rappresentando una catena con vari anelli. Il primo anello regge 6 chili, il secondo ne regge 4, il terzo ne regge 3, poi c’è l’anello che regge 10 chili inanellato a quello da 3 e così via. La catena si può rompere e ciò avverrà sempre nel punto più debole, quello dell’anello che regge 3 chili. Questo per dire che spesso in una squadra si tende a prendere ispirazione da chi è più forte, cioè da chi raggiunge i risultati migliori. Poi, però, scatta una sorta di mistica competizione con questo col lega e l’ambizione diventa raggiungere quel limite. Ma quel risultato è frutto di chi ha una sua logica, un suo modo e una sua tolleranza di cose diverse da quelle che invece tolleriamo noi. In una squadra bisogna non attenersi agli standard, come avviene, per esempio, nel caso del bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno. Ma il bicchiere è sempre tutto pieno! È pieno perché c’è un po’ di acqua e un po’ di aria. Ecco come smontare il famoso luogo comune che ci descrive tutti conformi e portati a rispondere sempre la stessa cosa: “mezzo pieno”. E cioè cosa facciamo? Fissiamo il limite, la convenzione. Attenersi a ciò che occorre fare vuol dire non accettare l’idea di limite, gareggiando con se stessi anzi ché fare riferimento alla propria idea di limite.