IMPRESE E ISTITUZIONI: SESSANT’ANNI DI STORIA

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presidente del maglificio Della Rovere, Longastrino (FE), vice presidente di Piccola Industria Confindustria

Il maglificio Della Rovere, nato nel 1963 a opera di Giordano Piovaccari e Paola Bersani, che hanno puntato fin dall’inizio all’eccellenza made in Italy, oggi registra un fatturato di dodici milioni di euro, con il 60% della produzione destinato alle grandi filiere del lusso internazionale, settanta collaboratori e un indotto di duecento addetti. Qual è la testimonianza che potete dare rispetto alla trasformazione dei rapporti con le istituzioni nei vostri sessant’anni di storia?

Di questi sessant’anni ho vissuto gli ultimi trentatré in prima persona e i precedenti attraverso i racconti dei miei soci. E devo dire che è cambiato tantissimo: negli anni sessanta e settanta, il rapporto con le istituzioni era estremamente amichevole perché nel nostro paese c’era una fame incredibile di qualsiasi prodotto, di conseguenza la politica sosteneva le imprese e, at traverso di esse, la creazione di posti di lavoro e di valore. Nei racconti si narra per esempio che nel nostro comune non c’era bisogno di aspettare il permesso per costruire un capannone, anzi, il sindaco rassicurava l’imprenditore con una pacca sulla spalla: “Non preoccuparti, vai avanti, poi le carte le mettiamo a posto”. E la cosa più bella era che questo non comportava una delega della responsabilità, anzi, le amministrazioni affiancavano le imprese con l’intervento di tecnici mol to qualificati e competenti. Quando, per esempio, si gettava un piazzale, l’ingegnere del comune era presente e dava le specifiche tecniche da rispetta re – gli scarichi, il posizionamento dei tubi, la mescola di materiale da usare, e così via – e questo valeva anche per le aziende parastatali, come l’Enel o i vigili del fuoco, i cui responsabili intervenivano per dare indicazioni sulle opere da realizzare per garantire la messa in sicurezza degli impianti. La trave situata all’ingresso del nostro stabilimento, per esempio, ha la posizione e le caratteristiche indicate dal comandante dei vigili del fuoco di allora e dall’ingegnere che all’epoca era responsabile dell’ufficio urbanistica del comune.

Quindi l’approccio della politica era molto dirigista e molto motivato alla crescita e allo sviluppo economico, perché c’era un’Italia da rimettere in piedi. Nel tempo, invece, i rapporti delle imprese con la pubblica amministrazione sono andati via via deteriorandosi, soprattutto negli anni di Mani pulite, in cui è stato introdotto il criterio del “giusto appalto” e questo ha comportato la sostituzione della competenza e della responsabilità dei tecnici con la burocrazia che valuta le offerte sulla carta. Peccato che il criterio del giusto appalto non potrà mai ottenere i risultati di una valutazione tecnica: non a caso un privato non sceglie mai il fornitore in base al minor prezzo, ma in base alla competenza, alla correttezza e alla solidità. Eliminare dalle gare d’appalto due figure chiave come il politico, che governa il piano regolatore, e il tecnico, che dà le specifiche costruttive, ha spersonalizzato attività che hanno un ruolo essenziale nella nostra economia, e lo ha fatto soprattutto a suon di gogna mediatica, che non ha risparmiato nessuno, né ha rimediato quando l’accusato si rivelava innocente, perché l’approccio di quel tipo di giustizia era inquisitorio e accusatorio a priori. Un approccio che oggi è diffuso anche rispetto agli incidenti sul lavoro: un incidente è una cosa grave, nessun bravo imprenditore vuole un incidente, perché ama i suoi dipendenti e la sua struttura. Piuttosto, quando interviene un incidente, occorrerebbe verificare se quella struttura organizzativa ha i requisiti per garantire la sicurezza. Soltanto se un imprenditore non è in regola, allora, si dovrebbe ritenere responsabile di un incidente. Invece, questo approccio inquisitorio ha allontanato le istituzioni dall’impresa e ha delegato tantissime responsabilità al professionista privato e al legale rappresentante dell’azienda. Per esempio, oggi la SCIA (segnalazione certificata d’inizio attività) non dà né indicazioni né pareri tecnici, pertanto la responsabilità delle strutture realizzate rimane in capo al professioni sta e all’imprenditore. Così vale anche per il certificato protezione incendi dei vigili del fuoco, mentre una volta era il vigile a indicare dove inserire una porta o un altro elemento costruttivo perché l’edificio raggiungesse i massimi livelli di sicurezza. Nel momento in cui egli verificava che il fabbricato era costruito secondo le normative, firma va il certificato e assumeva la responsabilità delle proprie decisioni progettuali, lasciando al proprietario soltanto quella sulla conduzione. Oggi, invece, le istituzioni si limitano a un assenso per dare avvio all’attività, ma le responsabilità rimangono interamente in capo al progettista e all’impresa. In questo modo, l’istituzione diventa un puro ente di controllo.

E qui veniamo al secondo problema: con il pretesto di aumentare i controlli, vengono introdotte normative e disposizioni sempre più rigide e severe. Quindi, anziché porsi come interlocutori, affiancando l’azienda per indicare la giusta rotta, le istituzioni penalizza no le imprese più virtuose, quelle che si avventurano nei meandri di leggi sempre più complicate e rara mente riescono a evitare qualche sanzione se non si rivolgono a consulenti che parlano la lingua della burocrazia. In que sto modo la fanno franca, invece, i veri delinquenti, quelli che non chiedono alcuna autorizzazione e imboscano i veleni sottoterra o quelli che si servono del caporalato per far lavorare gli emi grati in nero e che emergono soltanto quando ci scappa il morto. È questo ciò che le amministrazioni dovrebbero andare a scovare, il mondo del sommerso che avanza ed è pericoloso.

In qualità di vice presidente nazionale di Piccola Industria Confindustria, lei incontra membri di altri paesi. Ha ascoltato differenti testimonianze a questo proposito?

Prendiamo il caso della Germania: quando un imprenditore tedesco ha un appuntamento con un funzionario dell’agenzia delle entrate non vuol dire che ha un problema con il fisco, ma che deve raccogliere elementi per capire come fare la dichiarazione dei redditi in modo da pagare meno tasse. Per noi una cosa simile è inconcepibile, eppure, si può essere perfettamente in regola pagando ciò che è giusto, se da parte dell’ente di controllo c’è un approccio formativo, anziché inquisitorio.

Tornando in Italia, un aspetto che sta migliorando è quello che riguarda il diritto fallimentare, che si è evoluto rispetto a qualche decennio fa, offrendo alle imprese nuovi strumenti per affrontare le varie implicazioni e gli effetti della chiusura di un’attività, anziché farne un tabù. Ai tempi in cui vigeva l’antico concetto di fallimento, il valore di un’impresa era legato ai beni strumentali – al capannone, che era come il castello, alla macchina utensile, che era come il vigneto –, a qualcosa che aveva un valore di per sé in un mondo che si muoveva lenta mente, pertanto, se qualcosa andava male, venivano fermate le macchine, la società veniva liquidata, vendendo tutto al miglior offerente che prosegui va in altri modi. Oggi invece il valore reale di un’attività è intangibile, sta nel capitale intellettuale, nelle relazioni internazionali con i clienti e con i fornitori, nelle capacità operative, nei brevetti e in una serie di skill che si volatilizzano nel giro di qualche mese nel momento in cui un’azienda cessa l’attività. Ecco perché si sono rivelati molto importanti i sistemi di allerta e i concordati di continuità, per evitare di distruggere il valore dell’impresa e accompagnarla nell’uscita dal guado, perché non c’è più l’idea che il falli mento riguardi la persona dell’imprenditore, ma l’attività, che deve trovare nuova fiducia per ripartire. Con il “Co dice della crisi d’impresa e dell’insolvenza” (entrato in vigore il 15 luglio 2022), i fornitori e le banche firmano un accordo che consente all’impresa che ha manifestato segnali di crisi di rilanciare l’attività oppure, in casi estremi, di salvaguardare gli intangible assets, anche con il controllo di un curatore incaricato dall’ente pubblico.

A parte questa novità positiva, le cose si stanno complicando ogni anno di più e, come al solito, le piccole imprese sono quelle che fanno più fatica a destreggiarsi in un labirinto normativo che richiede maggiore formazione manageriale, maggiore dimensione dell’azienda e la presenza di figure specialistiche che non erano necessarie sessant’anni fa, quando la piccola azienda si muoveva in un raggio di azione di un centinaio di chilometri. Oggi, anche una media azienda come la nostra ha un mercato mondiale, quindi le competenze di cui ha bisogno non si contano.

Della Rovere ha lavorato con grandi gruppi come Versace e Les Copains fin dall’inizio o ha incominciato a puntare all’alta moda in una seconda fase?

Nel nostro caso il Dna dei due fon datori, che sono partiti quando ave vano diciott’anni, è stato decisivo per l’attuale posizionamento dell’impresa: hanno scommesso sempre nella produzione di eccellenze, anche quando l’Italia era povera, il loro scopo non era quello di produrre capi più vendibili, ma fatti meglio degli altri presenti sul mercato. E questo ha pagato nel tempo perché ha consentito all’azienda di vi vere tutti i vari stadi storici della moda, dal prodotto alla collezione e dal retail alle grandi marche. Nel 1977 è arrivato il grande salto quando il nostro maglificio ha unito la sua sapienza artigianale con la fama mondiale del gruppo Les Copains in un rapporto che è durato ben ventiquattro anni. Il 1980 ha segnato l’inizio della collaborazione con Gianni Versace che ci ha portato sulle passerelle dell’alta moda per oltre vent’anni. Intanto le tecniche di lavo razione si sono affinate e i filati utilizzati sono stati scelti fra i più pregiati ed esclusivi al mondo. Nel 2007, con il mio ingresso, si è avviato quel pro cesso di digitalizzazione che ci ha con sentito di essere pronti nel momento in cui è arrivata la quarta rivoluzione industriale (Industry 4.0). Oggi gestiamo da remoto un parco macchine di proprietà che va dal Veneto all’Umbria, con oltre duecento pezzi e, in pochi minuti, siamo in grado di passare da un disegno a un telo tessuto. La grande sfida è quella di organizzare sempre più le piccole realtà artigianali in un dispositivo industriale che mantenga i caratteristici valori del made in Italy come la flessibilità e la specializzazione, arricchendola con la procedura per integrazione, la velocità, la formazione e la motivazione sui risultati.

Con l’invenzione del marchio Cains Mo ore siete passati da terzisti a produttori di capi a marchio proprio…

In realtà non abbiamo mai avuto la mentalità dei terzisti, anche perché Della Rovere dal 1977 al 2001 è stata partecipata al 50% da Les Copains, un gruppo il cui mercato di riferimento era già mondiale. Ora come allora, con i nostri clienti abbiamo un approccio proattivo, sviluppiamo ricerca per loro, non eseguiamo passivamente una lavorazione, ma cerchiamo di entrare nel Dna del loro prodotto, analizziamo i loro negozi, i loro competitor e condividiamo tutti i dettagli delle scelte produttive. Questo ci ha spinti ad aumentare le nostre dimensioni integrando tante piccole realtà artigianali, perché i gruppi internazionali hanno bisogno di filiere ben organizzate e indipendenti, in grado di offrire l’eccellenza in ciascuna fase del processo produttivo.