IL CERVELLO DELL’EUROPA

Immagine: 
Qualifiche dell'autore: 
presidente del maglificio Della Rovere, Longastrino (FE), vice presidente nazionale di Piccola Industria Confindustria e di Confindustria Emilia Area Centro

Nel suo intervento del 16 aprile scorso a La Hulpe, Belgio, Mario Draghi affermava che, per attuare una trasformazione radicale dell’economia europea, innanzitutto “dobbiamo poter contare su sistemi energetici decarbonizzati e indipendenti; un sistema di difesa integrato e adeguato basato sull’Ue; manifattura nazionale nei settori più innovativi e in rapida crescita; e una posizione di leadership nel deep-tech e nel digitale”. Quali potrebbero essere le implicazioni di questa nuova politica europea per le industrie italiane?

Il rapporto che Mario Draghi ha elaborato su richiesta di Ursula von der Leyen è un vero e proprio manifesto che va al nocciolo delle questioni essenziali e sottolinea che, nonostante l’Europa sia il primo mercato al mondo, non esiste un’industria europea, ma soltanto industrie nazionali in competizione fra loro. Questo comporta che mancano economie di scala che consentirebbero all’Europa di essere driver di sviluppo e d’innovazione nella competizione globale, come invece accade per gli Stati Uniti, per la Cina e, a breve, per l’India. Ecco perché insiste sul fatto che occorre una dimensione industriale continentale, soprattutto nei settori strategici (l’energia, le telecomunicazioni, le capacità di calcolo e la difesa), in pratica nelle infrastrutture, non soltanto fisiche, ma anche intellettuali. E la prova che i paesi europei, mettendosi insieme, possono costruire prodotti inarrivabili per una singola nazione la troviamo nel caso di Airbus, un consorzio europeo che ha prodotto aerei civili che hanno vinto sul mercato globale le sfide di colossi come la Boeing.

Noi siamo ancora un mercato ricco che può comprarsi aerei di ultima generazione, ma non può produrli, perché i singoli stati non hanno abbastanza risorse da destinare alla ricerca e sviluppo di cui l’innovazione ha bisogno. Non c’è una politica unica, anche se l’Unione europea sta compiendo degli sforzi per costituire un centro di acquisto delle materie prime rare, considerando la sua dipendenza dalla Cina, che ne estrae il 63% del totale mondiale.

Se parliamo di energia, ogni stato cerca di risolvere in maniera diversa il problema, trascurando le specificità di ciascun territorio. Per esempio, considerando che la Spagna è un hub per il gas liquido, basterebbe costruire un gasdotto che si connette alla sua rete per rifornire gli altri paesi membri, anziché replicare in piccolo la realtà spagnola. Mettere in atto una politica industriale europea non vuol dire omologare, ma valorizzare ciò che ciascun paese offre di migliore: il vento nel mare del Nord, il sole al Sud e i rigassificatori in Spagna. Questo è il ragionamento che porta alle economie di scala e vale anche per le telecomunicazioni, perché abbiamo un numero di operatori – trentacinque contro i quattro degli Stati Uniti – che porta a un’eccessiva frammentazione e impedisce di reperire capitali sufficienti per fare innovazione, con la conseguenza che restiamo indietro e dipendiamo dagli altri, non soltanto a livello economico, ma anche a livello di sviluppo delle competenze e di libertà. Dietro alle telecomunicazioni e all’intelligenza artificiale, infatti, c’è sempre il punto interrogativo su chi guida la corsa, pertanto, avere il controllo in questi settori strategici significa essere al centro dello sviluppo, sapere i pro e i contro di ciascuna iniziativa e portarne a casa i vantaggi. Altrimenti c’è sempre l’ipotesi che magari una superpotenza tenga per sé i brevetti che aumentano il proprio vantaggio competitivo.

In che modo la Piccola Industria di Confindustria sta promuovendo le opportunità dell’intelligenza artificiale?

Nell’ultimo anno abbiamo organizzato una trentina di incontri e proseguiremo nei prossimi due anni a diffondere questo tema in tutta Italia, in modo anche innovativo, partendo da casi di applicazione pratica nelle piccole e medie imprese, anziché da teorie astratte e tecnicismi. E abbiamo constatato una realtà che sta rispondendo molto bene, non solo perché ciascun convegno che organizziamo riscuote enorme interesse da parte del pubblico, ma anche perché la piccola e media impresa italiana sta investendo tanto nell’intelligenza artificiale, molto più di quanto s’immagini. Le testimonianze delle applicazioni in ciascun settore sono veramente straordinarie. Per esempio, un’azienda di Verona ha usato applicazioni di intelligenza artificiale per tagliare il marmo seguendo perfettamente le venature, proprio come avviene per la pelle nell’abbigliamento. Chi taglia il marmo deve avere un’esperienza notevole per capire come seguire le venature dal punto di vista sia estetico sia strutturale. Le macchine possono elaborare molto più dell’uomo e acquisire molta esperienza sul sasso da tagliare, perché vedono cose che l’occhio umano non percepisce: per esempio, attraverso infrarossi o radiografie, possono individuare microfratture all’interno del sasso che in futuro potrebbero divenire fratture o difetti del prodotto finito. Il primo risultato di questa applicazione è la riduzione degli scarti di produzione, che porta a un efficientamento del 15-20% nell’uso della materia prima e a un aumento della qualità del prodotto. Questo è un esempio in cui la mappatura del taglio viene eseguita avvalendosi dei dati raccolti in migliaia di esperienze, proprio come avviene in medicina quando un radiologo riesce a interpretare l’evoluzione di un puntino in un organo, attraverso la lettura di migliaia di radiografie catalogate e condivise. La stessa cosa può valere nei controlli delle ruote di un treno per verificare eventuali incrinature dell’acciaio, in modo da garantire maggiore sicurezza ed evitare incidenti, sostituendo il pezzo in anticipo e a costi inferiori.

Tra le applicazioni illustrate nei nostri convegni, abbiamo apprezzato quelle che si utilizzano nel marketing per l’analisi dei comportamenti d’acquisto delle persone, ma anche quelle che riescono a correggere le macchine.

In che modo l’intelligenza artificiale riesce a correggere le macchine?

Nel settore della maglieria, quello di cui mi occupo come presidente del maglificio Della Rovere Srl, in passato si misurava il calibro del filo e, se era fuori standard, oltrepassando una tolleranza del 3% circa, il prodotto finito veniva scartato. Poi siamo passati al controllo preventivo della deviazione dallo standard: in presenza di un errore accidentale, una gaussiana pura, un errore casuale che va a destra o a sinistra, ma la punta della gaussiana sta al centro della misura, il problema non sussiste; se invece la gaussiana ha una tendenza verso una deriva che si sposta, si può calcolare anche in quanto tempo questo errore porterà fuori dallo standard. Questo controllo digitalizzato evita gli scarti di produzione perché consente di fermare la macchina al momento giusto. Ma la tecnologia predittiva ha fatto un passo in più: la macchina controllata passo passo può essere collegata a un calcolatore che va a correggere quella deviazione standard, quindi, a questo punto, non controllo soltanto la tolleranza del pezzo, ma anche la tolleranza del processo e comincio a fare in modo che la macchina si autocorregga, aumentando il giro, la pressione e la potenza su un determinato motore per mantenere la gaussiana centrata. Questo vuol dire che siamo passati a un controllo retroattivo del processo intelligente che va a correggere lo spostamento della deviazione standard dell’errore e consente di allungare i tempi di sostituzione del pezzo. Inoltre, la macchina “fa esperienza” e trasmette le informazioni non solo al produttore di filati, ma anche al produttore della macchina, con cui è connessa, quindi contribuisce alla progettazione delle macchine future, togliendo peso, intelligenza o materiale che non serve e supportando meglio quello che serve. Sono processi cui dobbiamo abituarci, fanno parte di un percorso storico industriale inarrestabile, ma, siccome questo percorso è centrale, come sottolinea Draghi, dobbiamo averlo in casa, perché le ricadute sulle nostre aziende sono enormi.

Per individuare i filoni su cui puntare in una strategia di politica industriale, dobbiamo tenere conto del fatto che non tutte le aziende sono uguali: il polo petrolchimico di Ferrara, per esempio, non è un retaggio del passato, perché la chimica non è finita. Il petrolchimico è un contesto che non produce solo Pil, ma anche competenze e innovazione che incidono in altri settori, sul segmento successivo della filiera produttiva, come il biomedicale, che ha raggiunto un alto livello tecnologico e può retroagire nei confronti della chimica per produrre plastiche o gomme o materiali più adatti ai propri utilizzi. In questo modo si costituisce un’intelligenza diffusa del e nel territorio, che diventa un hub di eccellenza, un acceleratore di sviluppo, che non può essere valutato come una qualsiasi azienda in base al numero di occupati e al fatturato. Ecco perché Draghi nel suo documento individua pochi filoni, che però sono i driver del futuro, quelli rispetto a cui tutti i paesi devono capire che singolarmente non possono riuscire a vincere la battaglia. Altrimenti siamo destinati a rimanere soltanto un’Europa che norma, che emana leggi per proteggere il consumatore, ma allora siamo una società in decadenza, un grande mercato fruitore, finché dura, ma non produce più ricchezza intellettuale, ricerca e sviluppo. Per di più, chi non produce perde anche le competenze che servono per intendere la qualità dei prodotti da acquistare. Se una comunità perde le competenze artigiane nella lavorazione del legno, per esempio, non è in grado di capire se un tavolo è costruito ad arte o si rompe dopo un anno, perché ha perso la memoria storica del prodotto. Ecco perché alcuni settori sono driver di sviluppo, perché stimolano la ricerca e permettono di avere il controllo della produzione, anziché di arrivare dopo ed essere costretti a seguire scelte fatte da altri.

Nella difesa, per esempio, produrre un oggetto utilizzato dagli eserciti europei implica una governance differente degli eserciti stessi e vuol dire avere interscambi, relazioni, informazioni, perché le macchine comunicano, vuol dire una situazione di sicurezza maggiore e un ruolo geopolitico che oggi non abbiamo e che invece dobbiamo avere, per una questione di sicurezza e di difesa della nostra identità, della nostra storia e della nostra cultura, non certo per esercitare un predominio o un’ambizione imperialistica.

Questo vale anche per l’energia – in modo da non essere soggetti a grandi speculazioni di mercato – e per le telecomunicazioni, che ormai sono diventate un tema di difesa e di privacy: abbiamo visto nelle ultime elezioni del nostro paese quanto la tecnologia possa influire sul voto e vediamo in questi giorni quanto le guerre si possano combattere attraverso un’opinione pubblica fabbricata in rete.

Infine, l’Europa dovrebbe anche avere un ruolo nel garantire gli approvvigionamenti di beni essenziali in tempi di guerra: non è possibile che Roma, Parigi e Berlino abbiano delegato alla Turchia il compito di salvare il grano ucraino, scongiurando il pericolo di una carestia per i popoli più deboli. Ma anche questo ruolo esige una collaborazione fra gli stati membri, almeno sui settori strategici di cui abbiamo par[1]lato, un’industria europea in grado di difendere gli interessi del nostro continente e di competere nel mondo, altrimenti rischiamo di dover rassegnarci a ripetere: “C’era una volta l’Europa”.