COME IL MALINTESO CONTRIBUISCE ALLA TRASFORMAZIONE
Il titolo di questo numero della rivista è L’arte del malinteso, ovvero l’intelligenza in quanto arte del fare, artificium (dal latino ars facere), per questo l’intelligenza è sempre artificiale, come notava Sergio Dalla Val nel suo intervento al convegno di Farete La sfida dell’uomo (Bologna, 7 settembre 2023). Nei dispositivi di produzione del vostro maglificio, Della Rovere Srl, in che modo riscontrate l’arte del fare ciascun giorno?
L’artificio, l’intelligenza come arte del fare mi fa pensare, prima ancora che all’attività della nostra e delle migliaia di piccole e medie imprese che costituiscono il tessuto economico italiano, a tutte le meraviglie del nostro patrimonio artistico. In particola re, rimango sconvolto ciascuna volta che visito Venezia, che nei mille anni della sua repubblica ha potuto fare esperienza di bellezza in modi e in ambiti differenti e vari, producendo magnifiche opere d’arte e di architettura, ma anche istituendo forme di governo delle acque che favorivano il flusso del mare all’interno dei canali per mantenerli puliti ed evitare che si tappassero, con la conseguenza d’insabbiare le fognature e di respingere i pesci. Questa bellezza derivava proprio dall’arte del fare, che s’insegnava a scuola, ma la scuola non era separata dall’esperienza. A Venezia si chiamavano Scuole le confraternite laiche sorte fin dall’XI secolo come associazioni di lavoratori, prime forme di albo professionale. Di recente ho visitato la Scuola Grande di San Rocco, costituita come scuola di devozione nel 1478 da una confraternita di laici dediti a opere di beneficienza. È impressionante la bellezza dell’edificio e la perfezione delle opere del Tintoretto, e pensare che era un luogo di scambio, in cui i patrizi si sedevano l’uno accanto all’altro e discutevano delle politiche della città. E, dinanzi a tanta maestria, mi sono chiesto perché oggi invece chiunque può improvvisarsi muratore, falegname, idraulico e i cittadini non hanno modo di essere tutelati rispetto ai danni dell’incompetenza. È vero che le corporazioni nei secoli erano diventate un limite all’ingegno e qualcuno è anche finito sul rogo per avere tentato d’intaccar ne il potere, però forse siamo andati all’esatto opposto. Tutela del mestiere a Venezia non voleva dire soltanto trasmissione di un sapere, ma anche una garanzia per il consumatore fina le. Inoltre, le corporazioni coordina vano i progetti rivolti alla collettività in base all’occorrenza, per cui analizzavano se in un determinato periodo servissero, per esempio, più navi o più palazzi o più pulizia dei canali o più pesca o più commercio. Grazie a questa collegialità noi oggi ammiriamo la coerenza architettonica ed estetica dei palazzi del Canal Grande che, senza la direzione delle corporazioni, forse sarebbero stati un’accozzaglia di case come quelle costruite dagli anni sessanta in poi nelle periferie delle grandi metropoli. Purtroppo, oggi paghiamo lo scotto del disagio che le corporazioni hanno prodotto quando si sono opposte all’avanzamento della scienza. E, d’altra parte, i luddisti combattevano contro l’avvento del telaio meccanico perché temeva no che avrebbe sostituito il lavoro manuale fatto a regola d’arte, con la conseguente perdita di milioni di posti di lavoro. Per fortuna, la storia ha dimostrato più volte che le macchine non hanno distrutto i posti di lavoro, ma addirittura li hanno moltiplicati, come nel caso del telaio jacquard, che consentì a Lione di vincere la battaglia dell’evoluzione del tessile. La verità sta sempre nel mezzo: l’evoluzione tecnologica porta a non legarci le mani, ma d’altra parte, per produrre cose belle e ben fatte, occorre anche la competenza, che non si acquisisce con il semplice conseguimento del ti tolo di studio, ma con l’esperienza. E qui sorge la mia preoccupazione per i giovani che oggi hanno un’altissima scolarizzazione scollegata dalla pratica di tutti i giorni, che invece è necessaria per acquisire in ciascun mestiere dimestichezza con i materiali e la loro resistenza.
Leonardo da Vinci è stato il primo a mettere in risalto l’esperienza e diceva che la pittura dava la vera notizia delle cose, perché restituiva, per esempio, il movimento dell’aria e dell’acqua, che egli aveva constatato nell’esperienza… Leonardo è stato uno scienziato ante litteram, pur non avendo una matematica di supporto: dall’osservazione traeva i meccanismi di causa-effetto e li documentava non attraverso formule matematiche o leggi, ma attraverso disegni, progetti. Proprio come Einstein, che non aveva in mano gli strumenti del calcolo differenziale per formalizzare la sua intuizione, ma ha chiesto aiuto all’amico matematico Marcel Grossmann, e così è nata la formula della relatività. Per Leonardo è avvenuta la stessa cosa: lui constatava le cose, ma non le spiegava in formule matematiche, perché il suo modo di parlare era progettare. E, mentre la pittura del medioevo e del primo rinascimento è completamente astratta, metafisica e geometrica – pensiamo a Giotto o a Piero della Francesca – perché doveva rappresentare concetti religiosi e significati che facevano riferimento ai testi sacri, la pittura di Leonardo è scientifica, procede dall’osservazione della natura nella sua realtà fisica, senza alcun riferimento al di fuori dell’esperienza.
Curiosamente, in Leonardo troviamo la vera astrazione, ovvero ciò che consente il distacco dalla realtà convenzionale per indagare le leggi che governano la realtà effettiva ed effettuale delle cose…
Questo è molto interessante perché prima del rinascimento l’astrazione era, per dir così, cristallizzata, con gelata, scritta, era una sorta di “liturgia” che ognuno doveva ripetere in modo dogmatico. Con il rinascimento invece l’astrazione riguarda la capacità di astrarre a partire dall’osservazione della realtà. Per cui Leonardo, per esempio, disegna i canali in cui scorre l’acqua allo stesso modo dei vasi in cui scorre il sangue nel corpo umano. Nota una legge nella meccanica dei fluidi che vale in entrambi i casi e li disegna in maniera schematica e scientifica, quindi, compie un processo di astrazione, che gli consente poi di pro gettare, per esempio, la porta vinciana, che funziona come una valvola.
L’imprenditore è emblema dell’arte del fare perché deve seguire il tempo in cui le cose si combinano nell’impresa, non può mai fossilizzarsi su qualcosa che dà per acquisito. Per questo l’arte del fare è l’arte temporale per antonomasia: seguendo l’occorrenza, l’urgenza e la scadenza, l’imprenditore trova il modo d’ingegnar si ciascuna volta, e poi magari le cose si combinano anche per caso…
Restando fermi non accade nulla, ma, facendo, provando e riprovando, s’inventano cose molto belle anche come frutto di accidenti. Non è questione di fortuna, ma di disciplina e di lavoro costante. Nel nostro maglificio, a volte per sbaglio, nascono nuovi punti di maglia, che magari non sono adatti per il capo che stiamo producendo, però ci fanno capire che sono fattibili e ci aprono la strada per nuove creazioni. L’errore fa parte del lavoro e soprattutto la fase di ricerca e sviluppo in un’azienda dev’essere abbastanza libera. Sono invece le fasi d’industrializzazione e di commercializzazione che devono essere più selettive, per cui l’imprenditore deve capire se una nuova idea ha una sostenibilità economica, se l’azienda ha la capacità produttiva necessaria e se esistono i presupposti perché sia accolta dal mercato. Ma le idee non vanno mai bocciate in partenza.
Soprattutto in un settore come la moda, in cui c’è bisogno sempre di novità…
La moda sembra qualcosa che segue canoni ideali, invece esige criteri molto pragmatici. E, anche in questo settore, la scuola non adempie alla sua funzione, è troppo teorica, istituisce corsi di laurea in cui s’insegna storia della moda e del costume, si limita a formare figuriniste e stilisti, mentre dovrebbe dare l’opportunità ai giovani di fare esperienza tecnica dei materiali, delle lavorazioni e del mercato, dovrebbe fornire le competenze per costruire un prodotto, una collezione, una sfilata, e gli strumenti per capire i differenti comportamenti dei filati, quindi, per esempio, come si comportano la lana, il cachemire o la seta nel lavaggio o in ciascun tipo di lavorazione, quali effetti ne derivano (lucido, opaco, cadente, cangiante, drappeggiato). La scuola dovrebbe insegnare a immaginare l’effetto di un tessuto anche soltanto prendendo un filo in mano. È una bella astrazione anche questa, ma richiede tanta esperienza, non puoi avere dubbi sul risultato, devi sapere in partenza che il lino è una fibra legnosa, molto rigida, e non va bene per quel capo che lo stilista ha disegnato a tavolino e richiede un materiale più morbido, più elastico. La matita può arrivare dappertutto, ma nella realtà occorre tenere conto dei limiti della materia oppure trovare la materia più adatta a esprimere quella proposta. Bisogna provare e riprovare, anche se interviene l’errore, perché nell’esperienza non si perde mai tempo: ciò che non va bene in un caso può tornare utile in un altro.
In questo senso possiamo dire che l’intelligenza è l’arte del malinteso, perché “La pietra scartata dal costruttore è di venuta testata d’angolo”, come dice il Vangelo…
Addirittura il malinteso oggi è ricercato dalla scienza, è un elemento che comporta un avanzamento, perché ti fa capire limiti o effetti dei materiali che magari prima erano considerati secondari. Quando studiavo elettronica all’università, la fisica base che si utilizzava per costruire i circuiti era quella dei comportamenti primari delle onde elettromagnetiche o dei materiali, oggi i circuiti sono talmente miniaturizzati che la scienza sta lavorando sugli effetti secondari, quelli che noi consideravamo effetti da filtrare, disturbi, rumori. Un rumore oggi è un elemento fondamentale dell’elaborazione. Per esempio, se si sta riproducendo il suono di un clacson, che ha la funzione di avvertire qualcuno di qualcosa, ma il suono è disturbato, l’attenzione viene puntata sui disturbi, perché è come se avessero più contenuto informativo del suono del clacson in sé, sono più importanti, diventano elementi di comunicazione. Lo scarto diventa elemento d’innovazione, quindi l’errore fa parte della natura umana, fa parte dell’esperienza ed è un elemento che contribuisce alla trasformazione.