LA RICCHEZZA DEGLI ATTI ARBITRARI
Come affermava Roberto Ruozi (economista, ex rettore della Bocconi) nel suo intervento al Forum Rivoluzione digitale o rivoluzione dell’imprenditore (organizzato dalla nostra rivista, insieme alla Facoltà di Economia “Marco Biagi” di Modena, il 23 maggio 2017): “Occorre che i bancari divengano interlocutori degli imprenditori”. E aggiungeva: “Lo diciamo da cento anni”, ovvero i problemi di comunicazione tra banche e imprese hanno sempre aggiunto difficoltà al già complesso contesto in cui le imprese operano nel nostro paese.
Tuttavia, in qualità di vice presidente nazionale di Piccola Industria Confindustria, lei può raccontare un’esperienza differente in questo senso, come prova il suo intervento alla presentazione del Rapporto annualedella Banca d’Italia sull’economia dell’Emilia-Romagnanel 2021, che si è svolta nella Sede di Bologna a fine giugno…
Com’è noto, la Banca d’Italia ha istituito l’Arbitro Bancario Finanziario (ABF), uno strumento di risoluzione alternativa delle controversie che possono sorgere tra i clienti e le banche e gli altri intermediari in materia di operazioni e servizi bancari e finanziari. È un’opportunità di tutela più semplice, rapida ed economica rispetto a quella offerta dal giudice ordinario.
Il mio rapporto con i funzionari della Banca d’Italia è nato qualche anno fa con una sfida: portare duecento imprenditori al convegno annuale sul tema dell’arbitrato banche e imprese. In realtà, i posti in sala erano soltanto quaranta, ma mi sono impegnato a cogliere l’occasione per instaurare un dispositivo di comunicazione efficace, raccomandando a ciascuno degli imprenditori che avevo invitato di preparare domande specifiche, che procedessero dall’apertura, non dalle rivendicazioni o dalle contrapposizioni, perché a noi imprenditori interessa fare innovazione, non polemica. Tra parentesi, si può essere rivoluzionari in tante maniere: distruggendo tutto, senza sapere cosa fare e dove andare, oppure adoperandosi per costruire ciò che ancora non c’è, in questo caso, la comunicazione con i funzionari bancari, in modo che in futuro i problemi siano affrontati mettendosi intorno a un tavolo e ragionando con loro. È stato un evento importante, in cui abbiamo raccontato le nostre esperienze e abbiamo esplorato i casi di conflitto più frequenti. In seguito, ho incontrato il vice direttore della Banca d’Italia in vari contesti emiliani e spesso siamo stati invitati insieme a tenere conferenze proprio sul rapporto fra finanza e industria. Anche questo è stato un passo importante. A fine giugno, poi, come lei ricordava, sono stato invitato alla presentazione del Rapporto annuale della Banca d’Italia sull’economia dell’Emilia-Romagna nel 2021, come unico ospite, e questo è stato un ulteriore avanzamento – non tanto per me, quanto per Confindustria Emilia Area Centro, di cui sono vice presidente – perché ha voluto dire in qualche modo avere vinto la diffidenza e avere instaurato un dialogo basato sulla fiducia. Chiaramente, nei giorni precedenti, mi ero chiesto quale sarebbe stato il valore aggiunto del mio intervento in un incontro di presentazione dell’analisi dei dati economici e finanziari: anche il nostro Centro Studi analizza e pubblica mensilmente dati relativi ai vari settori di attività in cui operano i nostri associati. Ma che senso avrebbe avuto confrontare numeri con altri numeri? Per di più, le analisi delle banche sono più vaste di quelle che facciamo noi imprenditori, in quanto toccano molti più ambiti della comunità, come il patrimonio personale, il credito al consumo e la spesa delle famiglie. Eppure, c’erano dati che loro non potevano avere: quelli che servono per fare previsioni, perché loro, per ciò che riguarda il futuro, possono basarsi soltanto sulla statistica, mentre noi imprenditori abbiamo “pezzi” di futuro, per esempio, gli ordini che riceviamo e gli investimenti che mettiamo in campo. Un ordine non è ancora fatturato, non è ancora bilancio, è una promessa, e tuttavia non è semplice statistica, offre una fotografia quantitativa della realtà dei prossimi mesi. I dati sugli investimenti, inoltre, aiutano a fare proiezioni piuttosto attendibili a due o tre anni e, anche se alcuni investimenti potrebbero non dare i risultati attesi, indicano comunque la direzione in cui sta scommettendo e si sta muovendo una comunità di imprenditori.
Allora, quello che ho portato all’assemblea della Banca d’Italia è, per dir così, il bilancio dell’avvenire, attraverso il racconto dell’esperienza in atto in una comunità imprenditoriale, con le sue scelte e le sue scommesse, che decide per esempio di giocare la sua partita nella digitalizzazione, nella formazione e nella scuola. Il mio intervento è stato molto apprezzato dal mondo bancario, che vi ha trovato un valore aggiunto per avviare un lavoro di gruppo nell’analisi e nell’interpretazione di dati essenziali per la nostra economia. È l’ennesima prova di quanto siano importanti la curiosità e la disponibilità a mettersi in discussione, a confrontarsi e a portare valore aggiunto, anziché difendere le proprie opinioni in modo autoreferenziale. I dati presentati dalla Banca d’Italia sono molto interessanti perché offrono uno spaccato dell’economia nel suo complesso, oltre che delle attività industriali, mentre i nostri dati riguardano le decisioni che stiamo già assumendo, anche se non sono scritte nei bilanci e, quindi, le banche non ne hanno notizia. Anzi, addirittura, non hanno notizia neppure del bilancio che abbiamo già presentato quest’anno, possono vedere i movimenti bancari fino a marzo, ma sono numeri che non dicono niente rispetto agli acquisti già effettuati, per esempio. Mi fa piacere che la Banca d’Italia si stia aprendo al confronto con le imprese e credo che noi italiani dovremmo portare avanti sempre più questo tipo di esperienze costruttive con le istituzioni.
Cultura vuol dire anche scambio intellettuale, che procede per integrazione, non per contrapposizione…
Infatti, anche nelle riunioni in azienda, dico ai miei collaboratori che le obiezioni sono sacrosante, ma non bastano, occorre aggiungere le proposte. Il gusto delle obiezioni fine a se stesse per dimostrare di essere intelligenti non ha alcun interesse, porta al “vaffa”, non produce nulla, è come la politica energetica italiana, che è partita dall’ultimo anello della catena: le automobili. La scelta d’incentivare l’automobile elettrica, senza prima predisporre le infrastrutture e sviluppare la tecnologia a sostegno della transizione energetica, è la più assurda che si potesse fare: l’incentivazione andava sulla produzione di energia green, non sull’accelerazione dell’utilizzo di un prodotto che consuma energia green, perché, se dobbiamo usare un’auto elettrica che si alimenta con energia prodotta da gas o idrocarburi, cosa cambia? Occorreva prima di tutto riconvertire la produzione di energia e dotarsi delle tecnologie e delle filiere produttive necessarie, cose che non si possono comprare, la competenza nella tecnologia non si compra, si deve costruire, così come le filiere produttive. Non basta prendere quattro pannelli dalla Cina per portare a termine la transizione energetica, la rivoluzione tecnologica è continua, quindi occorre costruire le filiere che ci permettano di affrontare questa sfida giorno per giorno.
Se l’obiettivo era quello di fare fronte al problema dei cambiamenti climatici riducendo le emissioni di CO2 , è stato mancato completamente, sprecando soldi pubblici per incentivare l’acquisto di un’auto che utilizza energia elettrica prodotta dagli idrocarburi. È un errore clamoroso.
L’Unione europea ha sancito ciò che era già stato deciso più di dieci anni fa dal governo tedesco. Come si può leggere in un articolo pubblicato su “La Repubblica” del 16 maggio 2011 (intitolato Germania locomotive elettrica. La Merkel rilancia l’auto verde): “La Germania […] non vuole solo restare la locomotiva economica d’Europa: è decisa anche a diventare il paese di punta per lo sviluppo, la produzione, la diffusione a casa e l’export di auto elettriche. […] Di qui al 2020, secondo il piano che Angela Merkel ha illustrato ieri lunedì nella capitale insieme a responsabili dei big del comparto, dovranno circolare almeno un milione di auto elettriche nella Repubblica federale”. Dopo oltre dieci anni, il “piano” è ben lungi dall’essere realizzato e la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili non è ancora diventata una priorità per i “campioni della mobilità sostenibile”…
I costruttori hanno reagito a una domanda che cambiava nel mondo ed era inevitabile che l’Europa andasse in quella direzione. Il problema è come un paese impieghi soldi pubblici provenienti dalle imposte per incentivare l’acquisto di un’auto elettrica che oggi non risolve il problema dell’abbattimento della CO2 . Sarebbe preferibile aiutare i cittadini con un reddito basso ad acquistare un’auto di nuova generazione a benzina, togliendo così dalla circolazione una Euro 0 o una Euro 1, piuttosto che agevolare l’acquisto di un’auto elettrica di lusso, che è la terza o la quarta auto nelle famiglie benestanti.
La politica italiana di andare verso il gas – che è il più pulito degli idrocarburi, mentre la Germania sta ancora in piedi con il carbone – è una politica che aveva intrapreso già l’Eni, con Enrico Mattei ed è ancora la scelta giusta, soprattutto dopo avere differenziato i gasdotti, aggiungendo quelli che arrivano dall’Arzebaijan e dall’Algeria, anziché limitarsi a quelli provenienti dalla Russia, ma anche incentivando la formazione di altri network, che tra l’altro domani possono trasportare gas liquefatto. Queste sono le scelte strategiche importanti, non la politica fatta di slogan, che evita l’analisi della realtà del paese, delle imprese e delle famiglie.
Purtroppo l’Europa segue spesso spinte ideologiche, quindi procede per slogan, senza un calcolo pragmatico…
Il giornalismo sta seguendo la stessa strada, e questa è una delle ragioni per cui non si vendono i giornali e non si guardano i programmi televisivi, per la loro faziosità: vengono chiamati personaggi che esasperano il linguaggio per fare audience, per fare paura, anziché per informare i cittadini e aiutarli così ad affrontare i problemi, perché la paura è una delle leve più utilizzate per indurre le persone ad agire in modo automatico, senza pensare. Però la paura è anche qualcosa che si consuma velocemente, non si può stare sempre nella paura. Prendiamo il problema dell’immigrazione: sembrava che i barconi dovessero approdare nelle nostre case, mentre poi, quando è arrivato il Covid, nessuno ne parlava più. E la stessa cosa sta avvenendo con il Covid, dopo che la Russia ha invaso l’Ucraina, provocando una grande crisi alimentare ed energetica.
Forse è il momento per un “atto arbitrario” – riprendendo il titolo di questo numero della rivista –, come quello che qualifica ciascun imprenditore, che rischia e scommette, senza mai aderire a nessun luogo comune e conformismo…
Forse il momento è propizio perché i cittadini, grazie alle opportunità che offrono i nuovi media, trovino una via per coltivare la cultura, l’arte, il pensiero e l’informazione indipendenti, una via ricca di atti arbitrari.