LA BATTAGLIA DELLE PMI PER LA CIVILTÀ DELLA PAROLA
A proposito del titolo di questo numero della rivista, La civiltà della parola, che cosa può dirci in qualità di vice presidente nazionale di Piccola Industria Confindustria? In che modo le piccole e medie imprese possono essere considerate baluardi di quella civiltà in cui la libertà della parola non può essere negata e ciascuno trova il modo, parlando, d’inventare e di fare, sempre in direzione del valore assoluto della vita, anziché accontentarsi della sufficienza e della sopravvivenza?
La parola e la comunicazione sono essenziali nella vita dell’impresa e dell’imprenditore. Dinanzi a qualsiasi impedimento che sembra bloccare l’operatività delle aziende, parlando, si trova la via per proseguire e rilanciare. Questo è l’insegnamento principe che possiamo cogliere nell’esperienza di chi si trova nel rischio e nella scommessa imprenditoriali. Anche se spesso la non accettazione dei blocchi viene scambiata per spregiudicatezza da coloro che attaccano gli imprenditori a prescindere, considerandoli sfruttatori e speculatori rapaci o interessati esclusivamente al profitto economico. Dopo quasi due secoli, un manifesto pubblicato a Londra il 21 febbraio 1848 (quello di Marx e Engels), che denunciava le condizioni disumane dei lavoratori nelle fabbriche dell’epoca, continua a essere preso a modello di analisi della storia come “lotta di classe, sempre esistita e combattuta fra oppressori e oppressi”. E, purtroppo, finora noi imprenditori non siamo riusciti a dissipare questo modello di analisi, raccontando, comunicando e trasmettendo in maniera efficace quanta arte, scienza, gioco, piacere, felicità, bellezza, salute – in una parola, quanta vita – c’è nel lavoro e nell’esperienza di chi dà il suo contributo all’interno di un’impresa oggi. Al contrario, spesso, anche la nostra comunicazione come associazione datoriale non tiene conto dell’interlocutore politico, che è abile nella lingua diplomatica, nel centellinare le informazioni e nel mostrarsi ai cittadini il più possibile dalla loro parte. Pertanto, quando gli imprenditori chiedono pubblicamente una riduzione del cuneo fiscale al fine, per esempio, di rispondere alla richiesta da parte dei sindacati di aumentare le assunzioni, vengono subito additati come “i soliti padroni” che badano soltanto ai propri interessi. Dimenticando che il costo del lavoro nel nostro paese è uno dei più alti al mondo, gravato da contributi previdenziali e assicurativi e imposte sul reddito, che divorano oltre la metà della retribuzione e sottraggono molte risorse alle famiglie, oltre a ridurre la capacità d’investimento delle aziende. Il messaggio che passa nell’opinione comune è quello di “una classe che vorrebbe mantenere i propri privilegi, eludendo le tasse e scaricando sullo Stato la responsabilità della disoccupazione”.
Gli imprenditori, da una parte, dovrebbero continuare a far sentire in modo incisivo la propria voce ai tavoli delle trattive, dove si decide, o dovrebbe decidersi, la politica industriale dei prossimi anni e, dall’altra, nella comunicazione ai cittadini, dovrebbero riuscire a trasmettere il loro ruolo di motore dello sviluppo economico e sociale, soprattutto quando si rivolgono ai giovani. E questo vuol dire comunicare non solo ciò che occorre fare per le imprese, ma anche per la società nel suo complesso, per le famiglie, per i giovani e per il loro futuro, ovvero mettere mano alla scuola e alla formazione professionale, in modo da allineare il miss-match fra domanda e offerta nel mercato del lavoro; inoltre, vuol dire comunicare tutti i vantaggi e le soddisfazioni che può ottenere chi lavora nell’impresa. Purtroppo, l’attrattività delle impreseitaliane (in gran parte PMI) per i talenti non è ai primi posti nelle classifiche europee, dove troviamo l’Olanda e la Svizzera, non soltanto la solita Germania. Quindi, da un lato, la nostra scuola non si mette in discussione per offrire la formazione necessaria per rispondere alla domanda urgente e impellente di profili qualificati da parte delle imprese e, dall’altro, le imprese non dedicano abbastanza attenzione ai processi e alle strategie che le rendono attrattive nei confronti dei talenti.
Che cosa dovrebbero fare le aziende in questa direzione?
Oltre a comunicare tutti gli aspetti che valorizzano l’esperienza di chi lavora in un’azienda piuttosto che in un’altra, ciascuna impresa dovrebbe offrire ai collaboratori un ambiente di lavoro sfidante, processi di crescita professionale, percorsi di formazione continua e progetti di lavoro innovativi. E queste sono attività che devono far parte dell’approccio costante di un’impresa, non soltanto nelle fasi del recruitment, ma durante tutto l’arco della vita lavorativa. Lo stesso possiamo dire del talent management, perché mantenere l’entusiasmo dei talenti che lavorano con noi è molto più complesso che mantenere aggiornato il parco macchine: una macchina si compra in pochi giorni, il processo di formazione di un collaboratore richiede anni e non si ferma mai, perché deve seguire la trasformazione tecnologica che avanza a passi da gigante. L’esigenza di nuove figure professionali è un problema enorme con cui le imprese si confrontano ciascun giorno. E pensare che nel dopoguerra in Italia gli istituti professionali erano fucine di talenti da cui sono nati tanti imprenditori che hanno fondato aziende divenute nel tempo industrie leader in tanti settori. Oggi, invece, la scuola è uno dei punti deboli della società, per questo è urgente stringere alleanze con le famiglie e gli insegnanti per rendere la scuola più vicina alle realtà produttive del paese, che non possono più essere considerate in antitesi alla cultura, all’istruzione e alla libertà di parola. Ma prima noi imprenditori dobbiamo porre a noi stessi una domanda: chi siamo? Siamo “padroni”, come a tanti conviene dipingerci, o leader dell’innovazione e dello sviluppo economico, insieme ai nostri manager e ai nostri collaboratori? Se siamo visti più come sindacato datoriale che come sindacato delle imprese, riferimento per la crescita e lo sviluppo della società civile, allora siamo marginalizzati, relativizzati immediatamente, messi all’opposizione e in minoranza. E, allora, vince l’ipocrisia morale, il pregiudizio che considera l’economia e i soldi come strumenti di condizionamento e orienta i giovani verso professioni ritenute “nobili” in quanto non sono finalizzate al mero profitto, ma a qualche utilità sociale. E poi accade che, in una regione a vocazione meccanica come la nostra, s’ingrossano le fila di diplomati di serie B disoccupati o di laureati in giurisprudenza a spasso. Quindi, le battaglie che dobbiamo portare avanti sono tante, ma dobbiamo prestare più attenzione al linguaggio che utilizziamo quando interveniamo nel dibattito pubblico. Ne va della nostra capacità d’influire nella politica nazionale di sviluppo economico, in cui le imprese devono avere un ruolo fondamentale. Certo, i politici non diranno mai che le imprese non abbiano un ruolo centrale nello sviluppo economico, ma in che misura le coinvolgono nella progettazione delle strategie dei prossimi cinque, dieci, vent’anni? È un tema su cui dovremmo riflettere molto di più.
La mentalità “protestante”, che trovava terreno fertile fra imprenditori che peraltro sono stati protagonisti del miracolo economico del dopoguerra, metteva l’accento sui fatti, a scapito delle parole, come se fossero in antitesi. La tradizione cattolica, invece – che ha dato impulso al rinascimento e quindi alla macchina e alla tecnica come cultura e arte –, si basa sul motto benedettino Ora et labora, ovvero mette sullo stesso piano gli effetti della parola e quelli del fare. Da ciò che lei sta affermando, mi sembra di capire che non è secondario il “come” le cose si dicono, se vogliamo che il messaggio giunga a destinazione: in pratica, non si può comunicare in modo diretto, come se si trattasse soltanto di trasmettere informazioni da emittente a ricevente…
Le parole hanno un’influenza enorme sul corso degli eventi, quindi non basta dare prova di avere raggiunto risultati straordinari o distinguersi in qualche ambito per avere un seguito: sappiamo che la fama di un marchio, conquistata in tanti anni di lavoro, oggi si può perdere con un post “sbagliato” diffuso sui social. Le società che garantiscono una migliore qualità della vita, una riduzione dei conflitti sociali e una maggiore distribuzione della ricchezza sono quelle in cui il diritto e i valori della cristianità, quindi della parola, anziché del passaggio all’azione e della giustizia sommaria, hanno una tradizione più antica. Questo è sotto gli occhi di tutti, in un momento in cui le autarchie stanno perdendo gran parte di quel potere che credevano assicurato dai loro possedimenti e dai loro giacimenti. Senza la parola non c’è movimento, avanzamento, trasformazione, tutto ristagna, un po’ come accade nella pubblica amministrazione in Italia, che sembra che faccia a gara per tenere ingessato qualsiasi ambito in cui ha un ruolo: l’istruzione, la sanità, le infrastrutture, i trasporti, e via dicendo. Certo, esistono le eccezioni, ma l’approccio diffuso negli uffici pubblici è il contrario di quello che constatiamo nelle aziende private, che compiono sforzi incredibili per capire quali sono le esigenze del cliente e in che modo rispondervi, man mano che esse cambiano. Tutt’altro rispetto all’autoreferenzialità della pubblica amministrazione, che ignora le richieste dei cittadini, quando addirittura non vi si oppone. E, in più, utilizza un linguaggio così ostico che richiede sempre l’intermediazione di un professionista che ci aiuti a evitare possibili danni provenienti da una scorretta interpretazione della norma in questione. È chiaro che c’è bisogno di grandi riforme nel pubblico, ma non è una questione che si risolve con i licenziamenti, è una questione di approccio ai problemi e alle necessità nuove che hanno i cittadini e le imprese, in modo che siano al centro dell’attenzione di quegli stessi enti che dovrebbero supportarli e accompagnarli nelle loro iniziative. Questo è anche frutto del ritardo nell’ingegnerizzazione dei processi interni alla pubblica amministrazione e comporta tanti sprechi con costi che non sarà facile reggere negli scenari che si stanno profilando all’orizzonte. Quindi, ci auguriamo che la civiltà della parola possa vincere la propria battaglia, che non è contro qualcuno o qualcosa, ma per la coesione sociale delle nostre comunità, così ricche di eccellenze e di risorse intellettuali per l’avvenire del pianeta.