TRANSIZIONE ENERGETICA E REGIONALIZZAZIONE EUROPEA DELLE FILIERE INTEGRATE
Nella letteratura aziendale troviamo tanti libri di imprendi[tori vincenti che ripercorrono tutta la loro vita in funzione della vittoria raggiunta. Ma il vincitore che scrive la storia spesso tralascia i momenti critici, i momenti di difficoltà e d’incertezza, quindi fa sfuggire al lettore i passaggi più difficili, quelli in cui prende decisioni, quelli cioè in cui utilizza il suo strumento di orientamento: la bussola. Nel suo libro La mia bussola. L’amicizia, la famiglia, l’impresa (Spirali), Paolo Moscatti racconta le vicende che lo hanno visto protagonista in trent’anni di attività di TEC Eurolab, laboratorio di riferimento dell’industria meccanica, aeronautica, spaziale, automotive e biomedicale per il testing dei materiali. Incalzato dalle domande di Anna Spadafora, l’autore non omette gli episodi spiacevoli che hanno prodotto perdite o sconfitte, ma, raccontando i processi attraverso cui l’azienda ha intrapreso ciascuna volta la via del rilancio, dà un contributo essenziale a chi si cimenta in un’esperienza d’impresa.
I temi che affronta sono tanti e di grande interesse per la formazione dell’imprenditore, di cui notoriamente non esiste una scuola: la dimensione e l’espansione internazionale, l’attrazione dei talenti, la continuità aziendale, le nuove tecnologie digitali, la comunicazione e i rapporti con gli stakeholders, quindi i valori, le regole e la cultura che un’azienda trasmette all’interno e all’esterno.
La lettura di questo libro provoca una serie di riflessioni che possono essere utili a ciascun imprenditore, e non solo, anche perché, come c’invita a fare l’autore, dovremmo smetterla di pensare all’impresa come qualcosa di contrapposto alla società civile, non possiamo continuare ad alimentare il pregiudizio secondo cui l’impresa è un affare privato, che punta al mero interesse economico dell’imprenditore e dei suoi soci. Come leggiamo a pagina 79: “L’impresa è vita, con le sue gioie, i suoi drammi, le occasioni perse e quelle colte al volo. Le imprese non sono esclusivamente il prodotto, il bene o il servizio che producono, le imprese sono socialità, ricchezza per il territorio. Sono inserite nel tessuto sociale, lo costituiscono, insieme alle istituzioni, al sistema educativo, favoriscono la coesione sociale, l’acquisizione di nuove culture, portano innovazione. Dobbiamo liberarci dell’ideologia antindustriale, antiimpresa che ancora oggi, soprattutto oggi, caratterizza alcuni atteggiamenti e comportamenti politici”.
Pensiamo al modo in cui i media riportano le notizie d’incidenti sul lavoro: l’importante è individuare i “personaggi” – l’imprenditore, l’operaio, lo stagista – e attribuire loro un’etichetta, senza la minima analisi del contesto e della vicenda che si svolgeva in quel momento, per capire cos’è avvenuto nella sua complessità, se ci sia stata negligenza o sfortuna, come può accadere, considerando che siamo esseri viventi e gli esseri viventi rischiano; ciascuno, vivendo, può andare incontro a imprevisti e incidenti. La stampa che alimenta l’ideologia contro l’impresa, però, non dice quanto si sia ridotto il rischio all’interno delle aziende rispetto agli anni passati, quando in fabbrica c’erano macchinari azionati dagli uomini e le protezioni erano davvero scarse. Oggi, invece, i luoghi di lavoro sono estremamente sicuri, ne abbiamo avuto la prova durante i picchi della pandemia: all’interno delle aziende c’era una tale disciplina che le probabilità di contagio erano ridotte del 50% rispetto all’esterno. Fare terrorismo rispetto ai pericoli del lavoro è deleterio, soprattutto perché scoraggia i giovani, che invece dovrebbero imparare un mestiere e quindi entrare prima possibile nelle realtà aziendali per prendere il posto delle persone che vanno in pensione e portare avanti sia la tradizione sia le nuove competenze che servono in un mondo tecnologico avanzato e globalizzato come quello attuale, che è molto più complesso di una volta. L’informazione allora dovrebbe diventare più approfondita, analitica, e i cittadini non dovrebbero andare sempre dietro i flauti magici, perché le cose semplicistiche non esistono, occorre intendere la complessità. Altrimenti, teniamo a casa, sempre protetti, tanti ragazzi disoccupati, che non sono in grado di gestire la propria vita e che vanno in giro la sera ad accoltellarsi o a bere e a fare incidenti, credendo che il pericolo sia lavorare.
Un’altra questione affrontata dalla stampa e dall’opinione comune per partito preso è il problema dell’approvvigionamento energetico: da quarant’anni non abbiamo una politica energetica, abbiamo deciso di abbandonare il nucleare, abbiamo lottato perché non volevamo gli inceneritori in casa e siamo arrivati fino alla cosa deprimente di mettere i rifiuti sui treni e trasportarli all’estero, in paesi da cui poi compriamo l’energia elettrica prodotta da termovalorizzatori o energia nucleare, con tutti i costi molto più alti che ne conseguono, anche in termini d’inquinamento. Gli attivisti No-Tap hanno fatto di tutto per ostacolare il gasdotto che arriva in Puglia e che oggi garantisce il 10% del gas in Italia, perché temevano la messa a rischio del paesaggio, nonostante si tratti di un tubo di 80 cm. di diametro che corre 15 metri sotto il suolo. Non si può ragionare in questi termini. Anche rispetto alla Libia occorre fare una serie di considerazioni: per noi è sempre stato un paese fonte di un buon interscambio commerciale, in particolare per l’energia, per garantire al nostro paese una differenziazione in caso di tensioni e conflitti, mentre la seconda guerra civile ha prodotto come risultato che oggi è controllata dai russi e dai turchi.
Un altro tema interessante che emerge dal libro di Paolo Moscatti è quello dell’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese, in particolare nel capitolo Quattro anni difficili, in cui analizza la breve avventura di TEC Eurolab in Cina. Le sue parole mi hanno fatto riflettere: l’internazionalizzazione non è un vantaggio sempre e per tutte le imprese, occorre valutare caso per caso, in base al business, al prodotto o al servizio offerto. Partiamo dai dati. Le imprese italiane esportano tantissimo, un terzo del Pil nazionale, questo vuol dire che facciamo cose veramente belle, di qualità, che funzionano bene, e le esportiamo in tutto il mondo, siamo il secondo paese esportatore europeo dopo la Germania. Il fatto che le imprese esportatrici in Italia siano soltanto 126.000 su cinque milioni è un indice molto importante, che fa capire quanto i capi filiera siano indispensabili per l’esportazione. Se pensiamo che una grande azienda ha centinaia di subfornitori, capiamo che le piccole aziende, anche se non esportano direttamente, concorrono all’esportazione attraverso i capi filiera. Tra parentesi, la Germania ha circa lo stesso numero di piccole imprese, ma ha un numero molto più alto di capi filiera. Ecco perché è indispensabile quella che ho chiamato “politica di condominio”, che consente alle piccole imprese di una stessa area di condividere alcuni servizi essenziali – per esempio di sicurezza, energia, logistica e spedizioni –, in modo da ottimizzare i costi e ridurre gli sprechi. È vero che non sempre piccolo è bello, ma questo non vuol dire che bisogna spingere le piccole imprese verso l’internazionalizzazione del proprio prodotto, perché magari non hanno i mezzi, la forza o il manufatto giusto per costruirsi una nicchia di mercato in cui diventare leaders, come è accaduto a Fazioli, che costruisce pianoforti richiesti in tutto il mondo. In questo caso è giusto rimanere da soli, altrimenti è meglio continuare a dare il proprio apporto alla filiera di subfornitura. Per questo le grandi aziende devono assumere una grande responsabilità nei confronti delle piccole, che sono come le fondamenta di una casa: quando sei seduto in salotto non le vedi, però se non ci fossero la casa crollerebbe. Le piccole imprese non le vedi, non hanno brand famosi, però sostengono il tessuto produttivo. E la responsabilità delle grandi aziende deve riguardare il trasferimento di competenze, tecnologia e investimenti finanziari, lungo la filiera non deve fluire soltanto lavoro, ma anche informazioni essenziali alle strategie per il futuro.
Caso emblematico nell’automotive: i capi filiera devono accompagnare i loro subfornitori in vista della transizione verso l’elettrico, cercando di far capire cosa produrrà tra dieci anni un produttore di marmitte. L’imprenditore, una volta ricevute queste informazioni sulla direzione che stanno intraprendendo i capi filiera, è in grado d’inventare e di trovare nuove vie per andare incontro alla trasformazione, però deve capire quali sono gli scenari futuri, che non possono essere soltanto quelli di macro economia, devono essere anche quelli pragmatici, raccontati dai responsabili degli uffici acquisti che parlino dei progetti che saranno sviluppati fra tre o quattro anni e dicano che tipo di componentistica sarà necessaria, che cosa manca attualmente e che cosa non sarà più richiesto.
Poi c’è un’altra questione: le nostre filiere non sono solo nazionali, ma si estendono attraverso intere regioni europee, per cui per esempio un terzo del valore delle automobili che sbarcano dall’Europa sul mercato americano arriva dall’Italia, ma più del 50% di questo terzo transita attraverso la Germania. Quindi noi esportiamo tramite hub tedeschi, siamo componentisti dell’industria tedesca, per cui arriva in America un grande brand tedesco, ma in realtà metà della macchina è italiana. Allora, se teniamo conto di questa regionalizzazione europea, la nostra politica industriale non può essere solo italiana, ma dev’essere agganciata all’Europa, in particolare alla Germania e alla Francia.
Questo non vuol dire che non dobbiamo difendere il prodotto tipico italiano, anzi, per esempio, nel settore alimentare, il prodotto tipico deve diventare di nicchia e raddoppiare o triplicare il prezzo, perché ha un valore aggiunto di biodiversità, mentre se facciamo la guerra fra poveri, basandoci sull’abbassamento dei prezzi, non possiamo spuntarla, data la nostra scarsità di materie prime strutturale del paese. Disegnare questi scenari è importante, perché le piccole imprese possano resistere e continuare a produrre benessere, perché non basta semplicemente aggregarsi per essere più forti. L’unione fa la forza nel momento in cui ci sono filiere integrate in grado di essere competitive, continuare a evolvere e generare valore reale per il mercato globale.