NELL’INDUSTRIA DELLA MODA IMPORTA LA MISURA DELL’INGEGNO, NON DEL SUDORE
La moda rappresenta la seconda industria in Italia, un comparto con 1,2 milioni di persone che lavorano nella produzione e nel commercio. L’emergenza causata dall’epidemia di Covid-19 ha provocato nel 2020 una perdita del 30 per cento di fatturato, pari a circa 29 miliardi di euro, ma ha anche dato impulso ad alcuni trend come la necessità per i marchi di cambiare la logistica, di accelerare l’e-commerce e di aumentare la velocità di risposta alle richieste dei mercati. In che modo oggi l’imprenditore del settore abbigliamento può cogliere gli indici della trasformazione, della riuscita e della direzione?
Quando un imprenditore decide di misurare qualcosa deve inventare uno strumento di misura specifico e stabilire a quali aspetti dare la priorità. È un primo passo di politica industriale, perché vuol dire avere chiaro che cosa è determinante nella performance successiva, un indicatore di ciò che avviene nella realtà pragmatica e di ciò che è essenziale nel manovrare la nave: chi è alla guida di un veliero ha bisogno di misurare la forza del vento, chi invece guida una nave motorizzata deve misurare soprattutto le correnti. Lo strumento di misura è quasi una conseguenza del piano strategico e, una volta inventato, non è tanto importante l’esattezza del dato in sé che esso consente di acquisire, ma le differenze e le variazioni fra i dati che registra nei controlli successivi, ripetuti nel tempo.
Allora, che cosa è importante misurare oggi all’interno di un’azienda che opera nel settore del lusso? Partiamo da una premessa: la rivoluzione digitale, con Industria 4.0, sta letteralmente cancellando i colletti bianchi, quei posti di lavoro storicamente legati alle applicazioni dell’intelligenza umana e non più soltanto della forza fisica. Qui si pone la questione che sta ossessionando l’umanità dall’avvento dell’automazione: che cosa farà l’uomo, se la macchina soppianterà pian piano le sue funzioni, comprese quelle intellettuali? Tutti sono d’accordo nel rispondere che sicuramente l’uomo non sarà mai sostituibile nella sua creatività, nella sua capacità d’inventare compiendo accostamenti arbitrari che non hanno alcun senso per le macchine, quella creatività che interviene nel corso di esperienze culturali e artistiche. A me, per esempio, capita spesso di avere intuizioni importanti ascoltando musica o guardando un’opera d’arte. Allora, appurato che nella creatività l’uomo farà sempre la differenza rispetto alla macchina, possiamo in qualche modo misurare questa funzione? Se un giovane è assunto in un’azienda del settore moda per dare risposte creative alle esigenze degli stilisti – oltre a essere in grado di utilizzare le tecnologie digitali e la programmazione CAD – deve avere uno spessore culturale che gli consenta di produrre sempre nuove idee. Ma in che modo l’imprenditore riesce a misurare questo spessore e a programmare i percorsi formativi di volta in volta necessari a migliorare le sue performance? Non è solo un problema di produttività, di quanti programmi e modelli nuovi realizza, ma di qualità delle sue invenzioni: si tratta di misurare la sorpresa e la soddisfazione che suscita nello stilista o nel cliente che acquista e indossa il capo. Certo, è difficile, ma anche trent’anni fa era difficile fare il controllo di gestione, non c’era la distinta base di prodotto. Quando ho iniziato a lavorare, negli anni ottanta, la determinazione dei prezzi si faceva con la scheda a mano, non c’era il sistema informativo, e il bilancio si poteva leggere soltanto alla fine dell’anno. Oggi, invece, la gestione della cassa è a dir poco mensile, anzi, in un’azienda come la nostra, si possono verificare gli avanzamenti di produzione ciascun giorno, il controllo dei processi gestionali ed economici è quasi quotidiano, quindi si ottengono i dati in tempo reale. Oggi le macchine “parlano”: il CAD stesso dice quante volte è stato rifatto un programma e con quale efficacia. Poter misurare la soddisfazione del cliente rispetto a un’innovazione realizzata da un giovane programmatore, per esempio, è essenziale non solo per stabilire gli interventi e i relativi investimenti da mettere in atto per migliorare eventualmente la performance, ma anche per dare sicurezza al collaboratore, il quale deve sapere che il suo lavoro è monitorato e che la sua crescita professionale va di pari passo con la crescita del business. Così come si fa un budget economico e finanziario o un budget di vendita e di avanzamento di produzione, occorre fare un “budget di creatività”. Se un imprenditore della moda non lo fa, come può collocare gli sviluppi strategici nel futuro, sapere di quante persone ha bisogno per gestire un aumento di vendite e capire con precisione il costo di un prodotto? Tra parentesi, la questione del costo del prodotto è molto interessante. La nostra è la generazione della contabilità analitica, quella che pretendeva di distinguere nettamente i costi fissi dai variabili (quelli che variano in base alla quantità prodotta o venduta), ma oggi, in una logica di filiera integrata, non si può, per esempio, pensare di risparmiare affidando una fase della produzione a un terzista che non fa parte della filiera, soltanto perché costa un 20 per cento in meno: un fornitore qualificato, aggiornato costantemente sulle tecnologie più avanzate, collegato direttamente in rete e divenuto anello essenziale di un dispositivo vincente, vale molto più di quel 20 per cento. Occorre però non considerarlo fra i costi fissi, come se fosse equiparabile al costo dell’energia e del riscaldamento. Il dispositivo con un cliente e quello con un fornitore o lo sviluppo di un nuovo prodotto hanno un valore che non può essere messo nel calderone dei costi generali, soprattutto in una dinamica così veloce come quella attuale, in cui devi cambiare piattaforma prodotto costantemente. Se il fulcro della valutazione economica si concentra sul costo del prodotto in sé, anziché sui costi delle relazioni con i clienti e i fornitori e della formazione necessaria per aumentare la capacità di modificare quasi di continuo i processi di sviluppo, l’azienda alla fine dell’anno rischia di chiudere.
Quindi, per capire se ci sono gli indici della riuscita e della direzione verso il valore assoluto per un collaboratore, l’imprenditore deve chiedersi se quel collaboratore ha una curiosità intellettuale e una domanda di qualità o se rimane ancorato a qualche convinzione arcaica…
Io mi sono formato all’università d’ingegneria, però la mia crescita professionale deve molto alla collaborazione con splendidi imprenditori che avevano appena la terza media, ma grandi capacità di organizzare le persone da una parte e il business dall’altra. Il loro strumento di misura era molto semplice e, per capire se le cose stavano andando bene, si basavano principalmente su due elementi: il guadagno che ricavavano dall’attività e il sudore dei dipendenti. Erano molto contenti quando i dipendenti facevano gli straordinari: se avevano la coda di lavoro in ingresso e in uscita, la misura della produttività era data. Ma questo tipo di misurazione poteva essere adottato quando l’operaio svolgeva veramente il lavoro fisico, quando era lui la macchina che doveva stare sempre in moto. Se oggi invece la “macchina umana” non produce pezzi ma creatività – che poi le macchine implementano in pezzi –, conta la sua capacità di adattarsi velocemente alla realtà, d’innovare, d’inventare prodotti esclusivi, di capire immediatamente e culturalmente ciò che il cliente vuole e dargli la risposta migliore.
All’ultimo anno di università, mentre preparavo la tesi sugli algoritmi, mi accorsi di quanto fosse molto più difficile formulare un problema piuttosto che risolverlo. Formulare un problema vuol dire creare un modello della realtà, cosa che è molto più difficile perché implica pensare cose senza nessuna relazione fra loro oppure pensare tante variabili e scegliere quelle giuste. Significa modellare la realtà perché, in ciascun caso, è una rappresentazione della realtà: la realtà non la percepisce nessuno.
È proprio ciò che notava Charles Sanders Peirce, il matematico e filosofo americano fondatore del pragmatismo: è vero che la mappa non è il territorio, ma il territorio stesso non è “il territorio”, bensì una parola che gli umani intendono come una qualche realtà extralinguistica cui la parola territorio si riferisce. Questo non vuol dire che tutto sia mera rappresentazione, ma che noi non abbiamo percezione di ciò che chiamiamo realtà al di fuori della parola “realtà”…
Credo che l’impresa debba andare in questa direzione. A un recente convegno, ho suggerito ai commercialisti che l’avevano organizzato di spostare il focus dalla relazione sulla gestione di bilancio aziendale a quella sulla gestione di bilancio di filiera, considerando che i costi di filiera saranno sempre più importanti e occorrerà simulare grandi variazioni, perché oggi le cose accadono molto più in fretta rispetto a qualche anno fa. Quindi non ha senso usare modelli standard che pretendono di fotografare la realtà aziendale, perché la realtà è in continua trasformazione e nessuna fotografia può renderne conto.
Piuttosto, è importante misurare i processi e soprattutto il ruolo che ciascuna azienda ha all’interno della filiera nel suo complesso. Il posizionamento implica misurazioni completamente diverse: se un’azienda è situata molto a valle della filiera, la sua performance è legata alla customer satisfaction, quindi all’esperienza di acquisto del consumatore finale; se invece è situata su un canale intermedio che sviluppa il prodotto, deve misurare la sua capacità di fare evolvere la produzione in base alla domanda che cambia in modo veloce; se, infine, ha un ruolo di terzista, quindi esegue una fase della produzione, deve misurare la sua velocità di settare le macchine in modo che ci sia un’ottimizzazione dei processi, per esempio, attraverso la manutenzione preventiva che elimini i tempi morti e anticipi eventuali scostamenti dagli standard, che comporterebbero scarti di produzione.
Quindi, a seconda della posizione all’interno del processo produttivo, un’azienda deve misurare variabili diverse, ma in ciascun caso la differenza è data dall’uomo e dal suo intelletto, e questo implica anche valutazioni sugli stipendi del tutto nuove rispetto al passato, non a due livelli – impiegati e operai, da una parte, e dirigenti e quadri, dall’altra –, secondo una visione ottocentesca, militare, tayloristica dell’organizzazione. Oggi, invece, un saldatore può essere pagato molto più di un capo ragioniere, perché non si conta più il numero di lavorazioni che esegue il saldatore, quindi il fatturato che produce, ma la sua capacità di isolare un pezzo nuovo che poi va in stamperia e viene automatizzato. Quindi saranno le macchine a produrre pezzi, mentre l’uomo ha trovato la soluzione che sta a monte del processo di produzione automatica.
Ecco perché la misurazione e la gestione della creatività consente non solo di mantenere e di aumentare il patrimonio aziendale, ma anche di affrontare la complessità della tecnologia, del mercato, delle competenze e della crescita del business. Oggi non importa più la misura del sudore, ma quella dell’ingegno, perché per gestire la complessità occorrono squadre di brainworker, lavoratori di cervello, in grado di produrre idee in modo incessante.
Questo sarà il vero focus del futuro e, a questo punto, gli indici della riuscita e della direzione si coglieranno misurando questi processi: è l’unico modo per poter dire dove sta andando la tua impresa, cosa succede se raddoppi le vendite e di cosa hai bisogno per supportare un tipo di servizio piuttosto che un altro. È un effetto della civiltà delle macchine automatiche, che diventerà strategico. È la direzione in cui andrà l’umanità nei prossimi cinque, dieci anni, non cento.