CHE COSA POSSONO FARE LE AZIENDE PER ATTRARRE, FAR CRESCERE E MANTENERE I TALENTI?

Immagine: 
Qualifiche dell'autore: 
presidente del maglificio Della Rovere, Longastrino (FE), e della Piccola Industria di Confindustria Emilia Area Centro, vice presidente della stessa territoriale

Quest’anno la vostra azienda celebra cinquant’anni nella produzione di particolari meccanici torniti di precisione per importanti multinazionali di componenti oleodinamici e automobilistici, che voi esportate in paesi come Germania, Polonia, Svizzera e Australia. Inoltre, voi avete contribuito come sponsor tecnico alla vittoria di Emilia IV (il veicolo solare della classe cruiser, prodotto dall’Associazione sportiva Onda Solare Asd) al World Solar Challenger 2018, la gara mondiale di auto a energia solare che percorrono 3000 chilometri. La trasformazione in atto nel settore automotive, che tiene conto delle nuove direttive del Green New Deal, si estende anche alle dinamiche del mercato del lavoro. Quali sono le sue constatazioni?

Occorre considerare vari elementi in gioco. Il primo è la difficoltà di reperire giovani diplomati negli istituti tecnici: ce ne sono pochissimi e sono accaparrati da grandi aziende. Inoltre, questi pochi hanno una preparazione meccanica veramente scarsa e deludente, spesso a causa di programmi di studio redatti secondo scelte governative discutibili, anche se è vero che nel settore della formazione spesso operano figure che non sono tecnicamente preparate. Questo comporta che i tecnici diplomati debbano poi necessariamente seguire una specifica formazione tecnica all’interno dell’azienda che li ha assunti. Ecco perché la formazione effettiva grava poi sulle aziende, che sono costrette a mettere a disposizione un proprio tecnico esperto per insegnare, in orario di lavoro, all’apprendista a sua volta pagato dall’azienda, in modo che possa non soltanto acquisire le basi tecniche, ma anche quei principi della meccanica di cui sempre più spesso sono carenti i neo diplomati. È chiaro che questo processo diventa economicamente oneroso per l’impresa, perché sottrae tempo prezioso alla produzione.

Nelle scuole tecniche di Svizzera e Germania, la pratica tecnica è insegnata avendo la disponibilità di macchine e torni ancora in uso nelle aziende, in modo che i neo diplomati abbiano già acquisito la formazione di base quando entrano a lavorare nelle aziende, dove possono poi acquisire una specializzazione ulteriore. Negli istituti tecnici italiani, invece, i disegni, gli strumenti e i primi concetti della meccanica sono spesso forniti dalle aziende in cui approda il neo diplomato. Per non parlare del fatto che queste aziende devono scontrarsi con i pregiudizi sociali che oggi gravano sul lavoro nell’officina meccanica, spesso considerato spregevole soprattutto da parte delle famiglie: è quasi una seconda scelta o un parcheggio lavorare nell’azienda meccanica, in attesa di un lavoro considerato più gratificante. Il problema a cui stiamo andando incontro in Italia è che, quando i nostri capireparto andranno in pensione, le aziende avranno il problema di sostituirli.

Il lavoro, l’industria, la città sono tre aspetti essenziali della civiltà e si integrano fra loro. Ma quali sono i fattori che rendono difficile questa integrazione?

Nell’ambito della mia esperienza e della nostra dimensione aziendale – perché conta molto anche la dimensione, dato che un’azienda con meno di 20 dipendenti è diversa da una che ne ha 100 o 200 – una delle cose che contesto è la L. 68/1999, secondo cui l’impresa che ha dai 15 ai 35 dipendenti è obbligata ad assumere un disabile. Intanto, non sono equiparabili l’azienda che assume un dipendente disabile su 29 rispetto a quella che ne assume uno su 15, perché per quest’ultima è un onere che incide sul fatturato in modo decisamente maggiore. Quindi, questa legge è ingiusta. E questo è il primo aspetto.

Il secondo aspetto è relativo all’IRAP, anche se adesso forse cambierà qualcosa. Non ha senso che un’azienda debba pagare tasse su denaro che ha già speso, perché l’IRAP, nel determinare la base imponibile, non tiene conto degli oneri finanziari e degli stipendi dei dipendenti che costituiscono invece spese sostenute dall’azienda. Questa è una disposizione che penalizza le piccole imprese. Le grandi aziende, infatti, commissionano la produzione di semilavorati a piccole e medie imprese per un valore pari almeno al 50% del proprio fatturato, di conseguenza l’incidenza della manodopera sul fatturato totale delle grandi aziende è nettamente inferiore all’incidenza percentuale sul fatturato totale delle PMI. È giusto pagare le tasse, ma sul guadagno reale dell’azienda.

Poi, quando si dice che bisogna ridurre le tasse al dipendente, si ottiene il risultato di non aiutare né il dipendente né l’azienda. Il netto che riceve il dipendente, infatti, non è altro che la metà del costo aziendale. L’azienda paga un 40% di contributi sullo stipendio lordo del dipendente, poi ne versa circa un altro 10% del lordo del dipendente (oltre al 40%) e poi versa le tasse per conto del dipendente sul 90% residuo, quindi più o meno arriva a circa un 70% di quel lordo a fronte di un 140% di costo del lavoro per l’azienda. Per cui, a cosa serve ridurre le tasse soltanto di un 20% o poco più, quando abbiamo quel 50% che incide effettivamente sui costi aziendali? Occorre intervenire non sulle tasse dei dipendenti ma sui contributi, che sono un costo per l’azienda: è questo il reale costo del lavoro.

Un altro aspetto problematico è relativo ai finanziamenti. Le piccole aziende possono registrare anni in cui il bilancio è in rosso o in pareggio. A seguito dell’applicazione dei parametri di Basilea 2, i bilanci di queste aziende sono valutati non soltanto dalle banche ma anche dalla commissione governativa, che analizza i numeri a prescindere dall’impegno che l’imprenditore ha profuso o dal periodo di crisi dell’azienda e a prescindere dal fatto che essa operi nel mercato da decenni. Se questo giudizio è negativo, la commissione governativa non presta garanzia alla banca, che, quindi, non concede il finanziamento all’impresa perché predilige il finanziamento con la garanzia statale. Quindi, non è vero che le aziende hanno vantaggi perché sono finanziate anche dallo Stato.

Occorre considerare anche il caso dei finanziamenti erogati con il 50% a fondo perduto soltanto alle regioni a statuto speciale, come per esempio il Trentino Alto Adige. Il finanziamento erogato dalla Regione all’azienda di Bolzano, per esempio, che acquista un tornio con il 50% a fondo perduto, è più conveniente di quello erogato alla concorrente emiliano-romagnola per l’acquisto di beni strumentali e tecnologie per l’Industria 4.0, perché quest’ultima potrà detrarre soltanto contributi e tasse nell’arco di tre anni. Non stiamo parlando di un trattamento diverso fra due aziende della Germania e della Polonia, ma fra aziende dello stesso Paese distanti appena 300 chilometri l’una dall’altra: quella trentina, che ha acquistato il tornio investendo il 50% delle risorse, potrà anche utilizzare una tariffa oraria ridotta della metà rispetto a quella dell’emiliano-romagnola, facendo di fatto concorrenza sleale. E poi si critica la concorrenza sleale in Europa!

Sono queste le difficoltà principali che oggi incontra l’imprenditore e che sono spesso ignorate da istituzioni e cittadini. A queste si aggiunge anche l’annosa questione della logistica. A Bologna, per esempio, muoversi con il furgone è impossibile, specie quando si accede alla tangenziale. Il nodo di Rastignano è impraticabile da decenni, ma anche quando percorriamo la tangenziale per andare a Villanova di Castenaso, Bargellino, Borgo Panigale o Anzola Emilia troviamo le strade intasate dal traffico. Questo significa sottrarre tempo prezioso alla produzione di ricchezza per il Paese, ma anche consumare combustibile e, comunque, percorrere chilometri con costi maggiori, favorendo gli incidenti. La mobilità produttiva è impedita da una viabilità che penalizza tutta l’industria di Bologna.

Nonostante gli impedimenti che incontra il fare nell’impresa, alcune vostre produzioni proseguono sin da quando avete incominciato l’attività…

Certamente. Siamo orgogliosi di essere fornitori da oltre cinquant’anni di un’antica impresa di Seregno legata al settore moto, la Dell’Orto. È un atto di fedeltà, di reciproco rispetto e di collaborazione e per noi è come un matrimonio bellissimo. Ma, anche quest’alleanza fa parte di quanto mi è stato trasmesso da mio padre: il senso del dovere. Se il padre imprenditore coinvolge il figlio nel lavoro dell’azienda, anche il figlio diventa imprenditore, perché avrà inteso che essere imprenditore significa impegnarsi in modo assoluto, pur di offrire al cliente un servizio di qualità, talvolta anche quando esso può comportare una rimessa economica. Questo vale altrettanto nei confronti del collaboratore che viene a lavorare in azienda avendo problemi familiari. Spendersi oltre i propri limiti fa parte della tensione costruttiva tipica dell’imprenditore. Il suo lavoro non può essere ridotto soltanto a un discorso economico se egli dà alla città anche un contributo di civiltà tramite la propria impresa: le due cose non sono disgiunte. Ecco perché noi vogliamo crescere ancora e diventare partner affidabili anche di clienti nuovi, continuando a offrire un servizio di qualità assoluta.