LA SARTORIA 4.0: CIASCUN ACQUISTO UNA NUOVA ESPERIENZA

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presidente del maglificio Della Rovere, Longastrino (FE), e della Piccola Industria di Confindustria Emilia Area Centro, vice presidente della stessa territoriale

A proposito del titolo di questo numero del giornale, La vita differente e varia, mai come in questo momento, nell’impresa e nella società civile, constatiamo che la differenza e la varietà sono inarrestabili.
Come imprenditore del settore abbigliamento, che cosa può dirci della trasformazione che sta intervenendo in seguito alla crisi del commercio al dettaglio provocata dalle misure di contenimento della pandemia, ma, ancora prima, dall’avvento dell’e-commerce? Moda è una parola curiosa: sembra voler dire tendenza definita, conformità, canoni estetici indiscutibili solo da seguire senza fiatare e sembra dividere chi “è alla moda” da chi non lo è. In realtà, la moda è la più evidente manifestazione del cambiamento, della frammentazione dei comportamenti nel tempo, differenzia tutte le manifestazioni umane e le rende uniche, Belle Époque o Beat Generation che sia. Ma è anche frammentazione nello spazio. Prendiamo, per esempio, gli anni Ottanta: all’interno della stessa città, troviamo capi iconici per punk, metallari, moods, new romantics, paninari e “febbricitanti del sabato sera”, che si mescolano con abiti classici e all’avanguardia no gender di Renato Zero. Ogni tribù ha la sua divisa. E la moda continua a distinguere anche per fascia di reddito, esclusiva o funzionale, per livello culturale e per appartenenza politica e religiosa; per non parlare della differenza generazionale. Ancora oggi, vedo sospettosi i miei figli quando invado inconsapevolmente il loro campo estetico con una felpa vagamente hip hop o con una nuova App troppo da youtuber. Non sia mai che metta il naso nella loro vita digitale o, peggio, che manifesti segni di decadenza neuronale di mezza età.
Certo, ai miei tempi i genitori erano meno informati e troppo impegnati a realizzare il grande boom economico per indossare la London Calling del 1979, quindi crescevo libero nel mio nuovo mondo, che sarebbe ben presto diventato, solo nella mia mente, l’unico per tutti e per sempre.
Ma chi ha rifornito tutta questa giungla di segni distintivi in continuo divenire, certo non pianificabili da piani quinquennali da Politburo o concepibili dal gusto camouflage delle Case Rosade? Una microdiffusa e variopinta distribuzione basata su piccoli esercizi, piccoli rifugi di genere, che garantivano i collegamenti con la grande rete delle tendenze che partivano dalla Carnaby Street di turno e arrivavano come un’onda del mare, e pure con un certo delay, come si dice oggi, in ogni parte del pianeta. Delay, a volte comico, come quando trovavi nei primi anni Ottanta, nella Belgrado di Kusturica, locali dark perfettamente londinesi, ma con due o tre lustri di ritardo. Forse erano stati arredati con pezzi originali provenienti da ristrutturazioni grunge anni Novanta di qualche locale in Covent Garden; come originali erano le migliaia di Fiat 124 Murat sfreccianti per Istanbul.
I negozianti operavano un importantissimo ruolo: selezionare simboli per ogni tribù e soprattutto scommettere, mesi prima, con i propri ordini, sul comportamento della clientela nella stagione successiva. A monte di questa diffusione capillare di prodotto c’era una Babele ancora più fitta di micro e grandi aziende, con le loro migliaia di stilisti, product managers sempre pronti a viaggiare nelle capitali internazionali, a respirare e, il più delle volte, a copiare nuovi stili e modelli per portarli nell’onda alla velocità della carta stampata, non certo della luce della World Wide Web, con il giusto delay che permetteva ai consumatori di maturare ed essere pronti all’acquisto.
Questi negozi oggi stanno pagando gli effetti più devastanti della pandemia nella catena distributiva del nostro settore che, come per i castelli di carta, coinvolge fino alle radici tutta la supply chain tradizionale della moda, già in profonda crisi strutturale e in trasformazione da decenni, a causa della globalizzazione che riallocava definitivamente i punti cardine della produzione e della vendita nel pianeta.
Il Covid-19 sta accelerando incredibilmente la storia, di quanto lo capiremo solo nel tempo.
D’altra parte, perché stupirsi? Solo pochi decenni fa, negli anni Cinquanta, gli abiti non venivano né venduti né prodotti in questo modo, li confezionavano e li vendevano solo i sarti, per chi poteva permetterselo, mentre il più delle volte erano autoprodotti in casa. Nelle grandi metropoli il prodotto era inserito per lo più all’interno di grandi centri commerciali come Harrods e Saks. Solo un decennio dopo, tutto cambia: con lo sviluppo della nuova classe media, nascono industrie di abbigliamento in serie, come il GFT, implementazioni tayloriste, partite da Torino sul modello manageriale delle catene di montaggio Fiat. Da qui nascono i grandi magazzini, che vestono i colletti bianchi. Arrivano gli abiti per gli impiegati, gli insegnanti, gli agenti di commercio e i professionisti: non più un prodotto sartoriale, ma industriale, eppure ancora classico, conformista.
Poi, negli anni Sessanta e Settanta, con i movimenti giovanili, arrivano colore e divertimento, e proliferano nuovi marchi e stilisti. Dalla produzione in serie si passa alla collezione.
Ma la collezione ha bisogno di negozi che mettano insieme marchi diversi e li portino al pubblico con grande professionalità (all’epoca i negozianti avevano molta competenza e cultura del prodotto). La moda diventa Moda con la maiuscola, gli stilisti e le modelle diventano star come i grandi protagonisti dello sport, del cinema e della musica.
Ma ecco che nuovi venti incombono: nasce il fast fashion con le sue potentissime catene e filiere mondiali, che rivoluziona le fasce prezzi, abbassando vertiginosamente il costo di “essere alla moda” e, nello stesso tempo, come per un principio di conservazione dell’energia, eleva i marchi di lusso a un nuovo Olimpo dai prezzi inaccessibili ai più. La parola moda si opacizza, non riesce più a definire nulla in un mondo in cui si trova tutto e a tutti i prezzi e il lusso monomarca emerge e polarizza le vendite nei propri negozi, vere cattedrali nelle più belle vie del mondo. Risultato: ulteriori fette di mercato sottratte alla distribuzione multimarca.
La minaccia più grande viene però dalla tecnologia: tutti connessi e zero delay tra produzione e consumo. Questo non solo cambia tutte le logiche della distribuzione, ma rinnova e reinventa l’esperienza dell’acquisto. L’intelligenza artificiale, gli algoritmi analizzano accuratamente, puntualmente e in tempo reale ogni consumatore e lo orientano verso la “conversione”, vale a dire, verso l’acquisto del prodotto.
Fantastica parola dell’era digitale: conversione. Il silicio ridisegna senza pudore la linea di confine tra uomo e macchina. Di nuovo, il programma Industria 4.0 non sostituisce solo manodopera, come per le passate rivoluzioni industriali, ma anche intelletto. Nuove capacità di lettura dei bisogni, addirittura inconsci, non manifestati verbalmente dal proprio io, ma conteggiabili dalla macchina che instancabilmente legge le nostre reazioni alle interazioni digitali del grande mondo virtuale. Sì: “Io, algoritmo della tua psiche, ti consiglio quell’abito molto scollato perché io so che lo vuoi, anche se non osi confessarlo o non hai il coraggio di acquistarlo in pubblico. Ma un pacchetto con uno smile stampato è cosa privata, che rimane solo fra me e te”.
Fine della distribuzione fisica? Tutt’altro, l’uomo ha bisogno di interazione sociale. Certo, porre un prodotto in uno scaffale e fare una vetrina non è più sufficiente, si devono coinvolgere maggiormente tutti i sensi e produrre “esperienza”: da una pila di scarpe divise per taglia e colore si deve passare all’analisi tridimensionale del piede, dei movimenti della gamba in camminata, a un’attenta analisi dell’uso. In un ristorante, si deve potere affiancare il cuoco nella preparazione del cibo per la serata degli amici o vivere racconti della storia del cibo. In breve, occorre inventare esperienze coinvolgenti.
Così, si rilanciano anche vecchi modelli, come le antiche sartorie, che confezionano camicie da uomo su misura, magari vicino ai grandi alberghi a cinque stelle, per intercettare un cliente internazionale o comunque un uomo che vuole vestirsi su misura.
È una tendenza che sta prendendo piede anche in altri settori che possono esprimere un alto grado di artigianalità e personalizzazione del prodotto: il negozio diventa sempre più simile alla bottega rinascimentale, luogo di produzione, più che di rivendita, oppure luogo in cui si possono trovare prodotti speciali – vino, olio, pasta fresca – che il rivenditore commissiona direttamente all’artigiano o al contadino e poi vende con la sua etichetta. Tra l’altro, stiamo parlando di mestieri che non conoscono crisi e che possono raggiungere una dimensione industriale, dando lavoro e opportunità a migliaia di giovani, se riescono a coniugare lo sviluppo della manualità a un tipo di organizzazione commerciale che sfrutta le competenze digitali. Questo vuol dire dare valore aggiunto al mestiere e rimettere in moto le scuole professionali di qualità, quindi non soltanto migliorare le competenze tecnologiche, ma anche la manualità e la competenza di prodotto, che è culturale, oltre che tecnica. Un buon prodotto, per esempio un buon aceto balsamico tradizionale, non può essere definito attraverso parametri ingegneristici, non tutto è misurabile con gli algoritmi, c’è una cultura che deriva dall’esperienza che abbiamo acquisito e che dobbiamo integrare con il programma di Industria 4.0, con la nuova società digitale. E, così, lo stesso retailer in crisi può rilanciare il suo business attraverso progetti taylor made, concentrandosi non solo sul prodotto, ma soprattutto sul servizio – per esempio, recuperando i polsini della camicia, cambiando i bottoni, rimettendo a misura un capo prezioso quando il cliente cambia taglia –, in breve, trasformandosi in laboratorio sartoriale che veste clienti esigenti, che hanno una cura particolare dei loro abiti. Io non sono mai stato delicato con le mie giacche, però, quando ho comprato il mio primo abito su misura, appendevo la giacca in macchina con estrema cura, perché quella non era una giacca, ma la mia giacca, era una parte di me.
Noi italiani, con le nostre eccellenze, abbiamo una chance enorme: se compiamo questa migrazione digitale anche nella fase di vendita e di presentazione del prodotto, non ci batte nessuno, con un sito ben indicizzato e un prodotto molto di nicchia, ciascuna bottega può essere visitata da tutto il mondo. Che questa sia una strada vincente lo confermano anche i grandi marketplace, i quali, dopo una saturazione del cuore del mercato, stanno dirigendosi verso l’organizzazione di padiglioni per prodotti di nicchia. Anche gruppi generalisti, come Alibaba, si stanno accaparrando quote di mercato che per loro erano meno significative in prima battuta, mentre oggi incominciano a essere interessanti. Evidentemente, anche il consumatore del web sta diventando più sofisticato.