QUALE TRASFORMAZIONE PER LE PICCOLE INDUSTRIE, CUORE MANUFATTURIERO D’EUROPA
A proposito del tema di questo numero del giornale, L’incontro,
fin in dai primi mesi del suo mandato di presidente della Piccola industria di
Confindustria Emilia Area Centro, nel 2018, lei ha dato impulso all’organizzazione
di incontri per la crescita della cultura d’impresa fra gli associati. Con
quale approccio e con quale scommessa? Soprattutto in questo periodo di lockdown,
in cui abbiamo usato gli strumenti di comunicazione a distanza in maniera
massiva, ho avuto un’ulteriore prova di quanto fosse indispensabile rivolgersi
alla piccola impresa con un linguaggio più semplice e ricco di esempi, rispetto
a quello che i docenti utilizzano quando intervengono negli incontri con un
pubblico proveniente dalle grandi aziende manageriali. Le 2700 piccole aziende
che fanno parte della nostra territoriale, insediate nelle province di Bologna,
Ferrara e Modena, cuore manifatturiero d’Europa, fatturano meno di 10 milioni
di euro all’anno e ruotano per lo più intorno alla figura dell’imprenditore e
del suo staff. Di questo devono tenere conto i docenti e i testimonials che
invitiamo ai nostri incontri per esporre casi di qualità e d’innovazione, non
per fare accademia o dimostrare il loro alto livello culturale. Parlare in modo
semplice consente agli imprenditori che partecipano di acquisire elementi per
innescare processi di trasformazione nelle loro realtà. E questo è vitale, se
vogliamo che la tecnologia non rimanga prerogativa delle grandi industrie,
mentre il patrimonio manifatturiero delle piccole e micro imprese italiane
rischia di disperdersi, perché sono costrette a occuparsi del quotidiano e
trascurano la riflessione intorno alla strategia e all’innovazione, che è quasi
sempre subita e non anticipata.
Sviluppare la capacità di mettersi in discussione e di
programmare esige capacità di ascoltare e di capire il mercato, le nuove
tecnologie, i giovani, i fornitori, i clienti, quindi tutto ciò che sta fuori
dall’azienda. La parola in questo senso non è soltanto un veicolo, ma è essa
stessa materia: parlando, nell’incontro, qualcosa avviene e diviene.
Che cosa intende? La scommessa degli incontri con i nostri
associati è che ciascun imprenditore abbandoni gli stereotipi e i modelli di
business cui è affezionato e passi dal fatalismo, dall’aspettativa, dal subire
gli eventi alla capacità di analizzare, capire, trovare una strategia e programmare
ciò che occorre fare in ciascun caso specifico della sua azienda, cogliendo con
rapidità i vantaggi offerti dall’accelerazione tecnologica e dalla globalizzazione
per rilanciare e valorizzare il proprio mestiere. Per esempio, gli artigiani
del vetro di Murano, anziché ridursi a produrre animaletti e gadget che
rischiano di fare concorrenza ai cinesi, dovrebbero puntare a realizzare quei
magnifici lampadari che un tempo erano destinati ai palazzi reali di Versailles
o di San Pietroburgo e oggi, magari sposando un design più moderno, possono trovare
la loro giusta collocazione nei grandi alberghi di tutto il mondo.
Quali sono le principali difficoltà con cui deve
confrontarsi il processo di trasformazione culturale delle piccole imprese? Da
una parte, il divario generazionale che si dilata sempre di più, anche in
seguito all’uso sempre più spinto degli strumenti di comunicazione digitale e,
dall’altra, la grande varietà di prodotti, che non ci consente di fare economie
di scala negli investimenti in formazione dei giovani alle attività manifatturiere,
oltre che in marketing e comunicazione. Se una grande azienda svedese o tedesca
può pianificare una formazione delle persone in maniera strutturata, molto
modulare e ripetibile per migliaia di collaboratori, una realtà come quella
delle nostre piccole imprese richiede molta più adattabilità, perché il nostro
prodotto non è mai standard. Se in Italia abbiamo 1500 formaggi differenti
questo vuol dire che la formazione non può essere la stessa per tutti i tipi di
formaggio. Tuttavia, quello che può sembrare un limite, può divenire un’opportunità,
raccontando le nostre unicità: noi siamo i costruttori di Lamborghini e
Ferrari, di auto che non sono mai una uguale all’altra, e questo è di per sé un
valore per il nostro avvenire, senza bisogno d’inventare uno storytelling
fittizio.
Ci basta trasmettere ciò che facciamo e come lo facciamo,
con quale cura, arte e maestria. Alcuni considerano la parola “mestiere”
antiquata, invece è il terreno sul quale possono incontrarsi le generazioni.
Cimentandosi con la materia – il legno, il marmo, il vetro, il tessuto –, i
giovani possono non soltanto acquisire una sapienza antica, ma anche introdurre
nuovi modi di lavorare e di comunicare le nostre tradizioni, che così risultano
più moderne e possono essere apprezzate ovunque.
Purtroppo, finora la scuola non ha aiutato l’incontro
generazionale. Nel nostro settore, quello del fashion di lusso, l’Italia è
l’unico paese in Europa che vanta ancora un’industria manifatturiera forte,
mentre la Francia ha grandi marchi, ma molti di loro fanno realizzare i capi in
Italia.
Eppure, nella scuola s’insegna più la storia della moda che
il fare moda.
Gli unici percorsi di alternanza scuola lavoro strutturati,
gli ITS (Istituti Tecnici Superiori), l’anno scorso in Italia hanno formato
14.000 studenti, contro i 540.000 della Francia e gli oltre 700.000 della
Germania. Invece, sarebbe importante fare entrare i giovani nelle nostre
piccole aziende – il posto migliore per imparare il mestiere di imprenditore –,
ma anche consentire a diplomati e laureati in materie umanistiche di dare un
apporto al racconto delle nostre eccellenze, rendendo così la cultura viva,
anziché una realtà che appartiene al passato e che devono limitarsi a studiare.
Divenire imprenditori sarà sempre più essenziale,
soprattutto nei prossimi anni, in cui la disoccupazione aumenterà in modo
esponenziale, anche in seguito alla crisi prodotta dal lockdown… Occorre
che i giovani non si sentano di serie B se svolgono un lavoro di tipo tecnico o
se vanno a lavorare in una piccola azienda, anziché in una grande, perché è
vero che nella piccola c’è una minore cultura manageriale, però si ha la
possibilità di cimentarsi nei vari aspetti dell’impresa nella sua globalità,
mentre in una grande azienda c’è il rischio di eseguire un compito molto
definito, che può diventare obsoleto in poco tempo.
Da una grande azienda può nascere un manager, ma da una
piccola può nascere un imprenditore, una figura completamente differente, molto
più audace e dedita all’invenzione, perché deve trasformare materiali e
produrre ricchezza per sé e per gli altri nel lungo termine, rischiando
capitali e tempo anche in progetti avveniristici, rivoluzionari e contro le
consuetudini di tutti i giorni. Un manager deve rispondere al consiglio
d’amministrazione e agli stakeholder, con un orizzonte a breve termine, mentre
un imprenditore al 90 per cento ha un’idea infinita del tempo.
Quindi i giovani devono entrare nei dispositivi
dell’impresa, portare nuova tecnologia, integrazione e scambio con altri paesi
e altre culture – cosa in cui spesso noi italiani siamo carenti –, ma anche
definire gli obiettivi dell’impresa del futuro, perché la piccola impresa, se
rimane ferma nei propri paradigmi, si limita alla mera sopravvivenza.
Soprattutto se deve scontrarsi con le vessazioni continue
della burocrazia… Questo è il tema più rovente sul piatto in questo
momento: è in atto uno scontro decisivo tra il mondo dell’impresa e la pubblica
amministrazione, che mette in campo sempre più ostacoli, in modo sempre più
carnevalesco, incomprensibile e autoreferenziale.
In particolare dopo Mani pulite, la normazione è aumentata a
dismisura, come se le carte potessero superare la discrezionalità dell’uomo e
quindi in un certo senso anche la corruzione.
Al contrario, si è visto che proprio il delinquente riesce a
presentarsi con le carte in regola, perché, trattandosi di vincoli immaginari,
ha tutto il tempo per lavorare d’immaginazione, mentre il bravo imprenditore
gioca le carte della sua realtà pragmatica, semplice, e al 99 per cento non
riesce a costruire il sudoku. Quindi, si trova in enormi difficoltà e non
riesce a capire con chi interloquire, perché la pubblica amministrazione non è
costituita soltanto di politica. La politica è come un olio che sta a galla di
un sistema con tanti funzionari e dirigenti, tante strutture spesso in contrasto
tra loro, con obiettivi differenti e molto difficili da interpretare, quindi
molto limitanti.
Le grandi aziende anche in questo campo subiscono meno
perché hanno una notevole forza politica: fanno tante assunzioni, tanta
comunicazione mediatica, e l’impatto piace a tutti.
Della piccola impresa non si accorge nessuno, nonostante
siano i milioni di piccole imprese a dare più lavoro nel nostro paese.
Tuttavia, non riusciamo a fare massa critica per imporci. Forse, a un certo
punto, occorrono segnali forti, azioni di sciopero fiscale o blocco dell’Iva,
qualcosa dovrà avvenire perché sembriamo completamente inesistenti.
I cittadini italiani fanno fatica a comprendere questo,
perché finora abbiamo trascurato la comunicazione, ma ormai l’incontro è
divenuto irrimandabile, dobbiamo portare all’esterno il problema dell’impresa
come problema collettivo di sviluppo sociale ed economico. Ce ne accorgeremo a settembre
e ottobre, quando ci saranno milioni di disoccupati in seguito a questa crisi.
È inutile pensare che la questione si risolva attraverso sussidi e prebende,
pensioncine e voucherini, occorre innescare un meccanismo virtuoso di crescita
economica che passi attraverso l’attività del singolo cittadino al quale
bisogna ridare fiducia, rieducarlo alla responsabilità. Ed è anche inutile
vincolare il dipendente pubblico a un milione di responsabilità se poi è
illicenziabile. Come imprese e come cittadini siamo vessati da un sistema
arretratissimo, che ogni anno lo diventa ancora di più e, anziché sburocratizzarsi,
aumenta gli obblighi giorno dopo giorno in modo impressionante, arrivando
persino a cambiare in corsa le norme fiscali sugli investimenti già effettuati.
Abbiamo discusso per mesi se un impianto imbullonato dovesse pagare l’Imu o no,
come se fosse un capannone: come possiamo produrre ricchezza se paghiamo la tassa
su un imbullonato o se siamo costretti a pagare l’Imu su un capannone fermo o
su un negozio chiuso? Cose assurde, che in un paese moderno sono inaccettabili.
E non basta più il dialogo con il funzionario volenteroso o con il sindaco
disponibile al ragionamento, servono riforme strutturali urgenti e radicali.
Per non parlare di un problema culturale come il rapporto
dell’impresa e dell’imprenditore con il territorio, che in Italia è malato da
sempre, almeno dal secondo dopoguerra, per cui l’impresa è vista quasi come
nemica della società e dei cittadini. È una cosa totalmente illogica e distante
dalla questione della libertà. C’è qualcosa che non va e dobbiamo cambiare
completamente linguaggio per comunicare all’esterno qual è il nostro contributo
alla società civile. Qualcosa sta cambiando in questo senso, siamo usciti dal
palazzo e stiamo incominciando a confrontarci, con tutta la fatica del confronto,
ma senza sporcarci le mani non andiamo da nessuna parte.