NON C’È PIÙ DONNA TRIFORME

Immagine: 
Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, cifrante, presidente dell’Associazione culturale Progetto Emilia Romagna

Come diceva Caterina Giannelli nel suo intervento introduttivo al convegno L’età, le donne, il fare (Bologna, 13 giugno 2023), comunemente l’età è un modo per misurare il tempo, per definirlo, per rappresentarlo nella cronologia. È il tempo come chronos, come durata lineare, non come kairos, che è il tempo come taglio in atto, tempo come contingente, come complessità. Noi non sappiamo cos’è il tempo – lo dice anche Agostino d’Ippona: “Se me lo chiedi non lo so” (Le confessioni, 15.18) – , allora ce ne facciamo un’idea, lo carichiamo delle nostre rappresentazioni, anche delle nostre speranze e paure, con i conseguenti tabù.

L’idea di tempo serve per farci un’idea della vita – vita breve o lunga, intensa o noiosa, senza tempo o a tempo pieno – e per farci un’idea del nostro modo di abitare la vita, anche dividendola in fasi, in età: infanzia, giovinezza, vecchiaia. Questa questione è stata posta da Edipo, che crede di risolvere l’indovinello della Sfinge dicendo che l’animale che prima ha quattro gambe, poi due, poi tre è l’essere umano. Ma cosa dice in tal modo? Dice che l’uomo, in quanto essere nel tempo cronologizzato, è trinitario. Tre età, tre persone, che fanno l’homo mortalis e immortalis.

L’indovinello della Sfinge era il mistero della vita umana. Edipo lo risolve, o crede di averlo risolto. Siamo animali, ma siamo anche mortali, le tre fasi della vita ci portano dalla nascita alla morte: questa è la conoscenza che risolve l’indovinello. Ma allora occorre giungere a una constatazione: la Sfinge si precipita dalla rupe non perché è sconfitta, come si crede, ma perché ha vinto. Lei può dissolversi perché ha adempiuto al suo compito misterico, quello di portare l’uomo alla consapevolezza che la vita è per la morte, che la conoscenza è conoscenza della morte, che imparare a vivere è imparare a morire. La tragedia di Sofocle è debitrice dei misteri greci, ne porta le istanze fino ai giorni nostri, in cui la morte adombra la vita. Tant’è che il bisogno di conoscenza di Edipo, la conoscenza della sua origine, comporterà un’altra vittima, Giocasta, la quale, credendo di aver conosciuto il suo incesto, divenuta dunque mater certa (avrebbe avuto la prova che Edipo è suo figlio), si impicca, al colmo del dolore volto in sofferenza. La mater certa diventa la mater dolorosa. Si tratta per la Sfinge e per Giocasta della conoscenza della vita, e questa presunta conoscenza della vita acquisita da Edipo porta alla morte entrambe. Potremmo allora dire che Edipo, il paradigma della condizione umana per tanti sapienti, tra cui l’antropologo Jean-Pierre Vernant, è il “femminicida” ante litteram. E la cecità davanti alla Sfinge si doppia con l’accecamento dopo il suicidio di Giocasta.

Paiono cose da antica Grecia. Ma oggi la messa a morte delle donne o il loro suicidio sembrano frequenti come non mai e, in modo demagogico, sono considerati prodotti dal patriarcato. Ma chi si pone la questione: che ne è del mito della madre in questi casi? Qual è l’idealità cui la madre dovrebbe conformarsi, per le donne e per gli uomini? La mater certa è la madre ideale, dunque la mater dolorosa, (sempre premurosa, sempre sofferente, sempre sacrificale), anzi è in quanto mater certa che la mater è dolorosa: basta leggere il testo dello Stabat mater dolorosa attribuito a Jacopone da Todi. La questione è nodale, non solo per le nostre famiglie: la mater certa atque dolorosa è la madre di Dio, la cui morte in croce, la cui dissoluzione conferma la vita nella pena e stabilizza la trinità cattolica. E la mater dolorosa è il quarto termine della trinità, ne è il supporto: così padre e figlio sono tutti figli, figli di madre uniti dallo spirito, dalla certezza del dolore assunto dalla madre. Come accade in tante famiglie, oggi come non mai. Perché le fasi della vita stabilite sono proprio tre? Occorre notare che l’identità triforme basata sulle età non resta legata all’ambito maschile, come in Edipo: lo indica un esempio artistico, un’opera che il pittore austriaco Gustav Klimt dipinse nel 1905, la notissima Le tre età della donna (fig. 1, pag. 23).

Vediamo qui l’infanzia, con la bambina, poi una donna giovane, forse la mamma, con la pelle delicata come quella della bambina, adorna con una corona di fiori e una pioggia di pietre preziose e, distaccata da loro, sullo sfondo, una donna anziana, che colpisce per il ventre prominente, forse per le troppe gravidanze, e perché si copre il volto con la mano. È mater dolorosa? È distante da loro perché se ne sta andando per sempre? Quest’opera ebbe un successo immenso, vinse il primo premio all’Esposizione internazionale di arte a Roma, dove è tuttora esposta. Si è detto di tutto: opera dal valore universale, opera della condizione femminile. Ma ancora una volta importa il tre, ancora una volta le tre età, questa volta della donna. Ma, occorre dire, al netto di un certo scandalismo che ha suscitato, è questa la vita di una donna? La questione donna si risolve in questa idea di trinità? In essa ha da riassumersi una genealogia femminile, dato che le tre figure potrebbero essere la nonna, la mamma e la figlia?

La questione è che quest’opera, più che la condizione femminile, ripropone l’idea religiosa della donna triforme, un’idea reperibile, per esempio, nella tragedia mitologica, così cara anche a un certo femminismo, di Demetra, la dea greca delle messi e della prosperità agricola. A Demetra, Cerere per i romani, venne rapita da Ade, il re del Tartaro (a Roma detto Plutone), la figlia Core, poi detta Persefone. Demetra, aiutata da Ecate, signora dell’oscurità e dea dei necromanti, riesce a ottenere da Zeus che Persefone esca dall’inferno e ritorni. Però, prima di uscire, la fanciulla mangia un chicco di melograno degli Inferi che le era stato offerto, e questo fa sì che la magia di Ecate riesca solo in parte. Per sei mesi dell’anno Persefone starà con Demetra, con la madre terra, e per sei mesi starà nell’inferno con Ade, suo sposo. Come scrive Robert Graves, nel libro I miti greci: “Core, Persefone e Ecate erano evidentemente la dea Demetra nel suo triplice aspetto di Vergine, Ninfa e Vegliarda, nei tempi in cui soltanto le donne partecipava[1]no ai misteri dell’agricoltura. Core simboleggia il grano verde, Persefone il grano maturo e Ecate il grano raccolto”.

Ma triforme è anche Diana, o Artemide, venerata nel triplice aspetto di Diana, Luna e Ecate. Ricordate Ludovico Ariosto: “O santa dea, che dagli antiqui nostri debitamente sei detta triforme” (Orlando furioso, XVIII, 184). E a sua volta la stessa Ecate è, secondo alcuni, considerata triforme (fig. 2, pag. 25): secondo Esiodo aveva il potere supremo sul cielo, sulla terra e sul tartaro, o sul mare. Ma gli Elleni diedero preminenza alla sua forza distruttrice a scapito della sua forza creatrice e infine fu invocata soltanto nei riti clandestini di magia nera, specialmente nei luoghi dove si incrocia[1]no tre strade. Creatrice/distruttrice: anfibologia, dualità della madre, che diviene androgino trinitario con lo spirito, la conoscenza, l’eterno femminino. Ancora il tre, come le tre teste di Ecate (di leone, di cane, di giumenta) che si riferiscono evidentemente all’antica tripartizione dell’anno solare. Ma anche come le tre Parche, di cui l’ultima, Atropo, taglia il filo: ancora una volta è il rituale segreto e misterico, il rituale delle madri, in cui il segreto di mamma è il segreto di morte.

Rispetto ai tre ruoli, allora, la risposta ce la indicano le religioni. Cosa dice il cristianesimo, in particolare Sant’Agostino con il suo De Trinitate? Cosa dice l’Islam, a proposito delle tre figlie di Allah, come ci ricorda il libro di Salman Rushdie Versetti satanici? Cosa dicono i Veda con la sacra Trimurti? I tre ruoli, le trinità sono indispensabili all’unità. L’unità non è tale se non è trinità, se non si salda come totalità, che fa si che la trinità sia unità. Perché? Perché è un’unità spirituale, come nella trinità: in Agostino, Padre e Figlio esigono lo Spirito perché ci sia l’Unico. In Hegel, tesi e antitesi esigono lo Spirito per giungere alla sintesi. E ciò che vale per Dio vale per la donna. La trinità femminile, che trova il pretesto delle tre età della donna per rappresentarsi nell’Unica, offre la base, la piattaforma (non l’alternativa, come vorrebbe un certo femminismo naturalistico e matriarcale), all’esigenza di unificazione, di totalità, di pensiero unico avanzata dai teismi (i monoteismi e le loro varianti, i politeismi) e dalle dittature teocratiche oggi in voga nel pianeta.

Le tre età servono allo spirito del tempo, della nazione, della razza, servono alla teocrazia, poiché pongono le età al servizio dell’unità della vita (un’unità che raccoglie anche le differenze, che anzi consente e include le differenze), dunque al servizio dell’intolleranza. La silver economy non nobilita la vecchiaia, la copre con l’ipocrisia sociale, come la fake news della terza età, o della quarta o della quinta.

La vera intolleranza è intolleranza contro la vita: la vita non è accettata e allora c’è l’idea della vita, e l’idea delle età della vita, rispetto a cui ognuno è difettoso o mancante, pronto per l’oracolo, il farmaco, il chirurgo plastico. E non a caso il femminino di Goethe è eterno: la donna dovrebbe garantire l’eternità, le sue fasi dovrebbero essere circolari, senza il tempo, senza il contingente, senza il fare, senza la parola. Ma ciascuna donna avverte che il corpo, il disturbo, le sensazioni non sono esterni alla parola, non sono supporti della mistica, ovvero di ogni dottrina, anche contemporanea, che prescinda dalla parola. La mistica della femminilità, in tutte le sue forme, è la donna muta, la donna senza la parola. Ma ciascuna donna è nella parola, è indice del nome improprio, ingestibile, non è supporto di nessun nome di dio, di nessun nome del fallo, di nessuna universalità o totalità, rispetto a cui sentirsi in mancanza o in difetto, sempre malata, sempre da curare; e allora ciascun uomo è nella parola, per cui non teme più Diana, la luna e le sue fasi o Ecate e le sue furie.

Non si tratta di sostituire le divinità paterne con le divinità materne, spesso più intolleranti e feroci. Nell’atto di parola la trinità non ha bisogno di dissolversi, adempiuto il suo compito di androgino triforme: secondo i misteri, cessato il cerimoniale della trinità, la donna, l’uomo, il mondo finiranno nella padronanza. Nell’atto di parola la trinità non ha presa sull’esperienza di parola, con i dispositivi cifrematici della conversazione, della narrazione, della lettura con uno o più cifranti, che sono seguaci del tempo nella parola, non maestri misterici dell’eternità. Nel nostro itinerario secondo la procedura linguistica, secondo la procedura per integrazione e non per unificazione, ci sono tante fasi, tanti incontri, tanti interlocutori, ma nessuna fase finisce e le fasi non si susseguono. Lo spirito non guida il viaggio chiudendo o risolvendo il dubbio, perché l’enigma della Sfinge non è l’indovinello, è l’enigma della differenza sessuale, senza più segreto di mamma, senza più segreto di morte.

La Sfinge non ha da morire, Giocasta non ha da morire, la vecchiaia non ha da coprirsi il volto: nessuna mistica materna. Parlando, la cura è del tempo, non è materna. Per questo la mater è sicura, sine cura, e non abbiamo paura della morte, né bisogno di cercarla per rinascere, purificati e immortali. Come scrive Armando Verdiglione: “E voi non avete bisogno della dea triforme né dell’eterno femminino, dell’axis mundi. Voi non avete bisogno di morire per rinascere. Voi non avete bisogno di punirvi, di pentirvi per salvarvi” (Il gusto dell’onestà, p. 369).

Con il secondo rinascimento non c’è più la donna misterica, non c’è più donna triforme. Nulla è da salvare o da purificare o da redimere. L’accettazione della vita è questo: nella parola non c’è l’idea di sé o dell’Altro, non c’è un’idealità della vita, una vita ideale cui sottomettersi.

E, allora, se non c’è più paura della morte, se non abbiamo più il suo tabù, dopo l’ultimo tabù di cui parlava Letizia Rostagno, quello delle rughe, infrangiamo, parodiando, anche l’ulteriore tabù: quello della vecchiaia. Non usiamo più l’eufemismo ipocrita, basta parlare di anzianità o di senilità: diciamo la parola “vecchiaia”. Sì, vecchiaia, vecchiaia: parola che ha una sua nobiltà e dignità, perché è età della vita. Età che non succede a nessuna, che non porta alla morte, età della vita senza più bisogno dell’idea di fine, quindi senza l’idea di morte e di nulla. Vecchio, vecchia; parodiando Pirandello, se ci sono i giovani, perché non hanno da esserci i vecchi? Con la vecchiaia, l’età non è più presa nell’idea della vita, dunque non c’è più età ideale.