L’ETÀ, LE DONNE, IL FARE

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Caterina Giannelli brainworker, cifrante, presidente dell’Istituto culturale Centro Industria

L’età è una benedizione a vent’anni e una maledizione negli “anta”? Le rughe sarebbero il segno dell’età? Sancirebbero forse la finitezza del tempo? Rendicontano l’età come idea di durata della vita, come rappresentazione del tempo e della sessualità, di ciò che prima si poteva fare e poi non più? E allora si contano le rughe come si conta l’età, di cui sarebbero il segno e l’identità. E la vita diventa una prigione, in cui contare il tempo che resta da vivere, senza progetto e senza programma.

Secondo questa mentalità le età sono funzionali a confermare la vita come soggetta alla convenzione. Qual è la convenzione? “Tutti gli uomini sono mortali” ovvero tutti gli uomini sono soggetti a un destino comune: la morte, che tutti parifica. La morte diventa la somma idea di uguale. E qua li e quante dottrine non raccolgono profitti a partire da questa idea! Gli uomini hanno inventato la religione per la paura della morte? A partire da questo canone ognuno può differenziarsi come più uguale fra gli uguali mortali, a seconda di come arriva alla destinazione. Allora, il valore della vita sarebbe sancito dal modo in cui ognuno giunge alla destinazione comune. Per cui occorrerebbe attrezzar si, preparandosi alla “buona” morte.

Questo canone fa del tempo una linea, uguale per tutti. Questa linea inizia e poi finisce, secondo la mitologia delle tre Parche latine o delle Moire greche, addette a stabilire il destino degli uomini attraverso la loro facoltà di taglio del filo della vita: dalla sua origine alla sua durata e fino alla sua fine. La vita è significata da questo presunto sapere sul tempo come durata, fra l’inizio e la fine. Senza il fare. Ma il tempo interviene facendo, per ché il fare esige la conclusione, non la fine di ciò che si fa.

Le Parche sono la rappresentazione del tempo come durata, sono utili a confermare l’idea della vita come naturalistica, cioè della vita come destino assegnato agli uguali in quanto mortali. Ma queste mitologie greche e romane non sono altro che favole pedagogiche, per educare l’uomo a vivere, a ricordarsi di essere soggetto alla morte. Educare a morire condiziona il fare? No, questa idea del tempo semplicemente è fatua, perché la condizione del fare è nella parola. E la parola, impadroneggiabile, si staglia sulla libertà, sull’aria, sulla leggerezza originaria, per ciascuno. Ognuno, invece, preso dall’idea di fine, evita la parola, accetta l’omertà. Su questa idea di fine agiscono i regimi, che però non tengono perché è la parola ad agire e la padronanza non tiene, da qui il gesto, il lapsus, il motto di spirito, la dimenticanza che restano non controllabili. Per questo sono in tesi come disturbi: non rispettano la convenzione.

Contro la libertà della parola, per esempio, anche a Bologna nel 1498, l’inquisizione aveva ordinato il rogo delle donne. Le donne sarebbero difettose, disturbano perché ciarlano: le donne non dicono ciò che vuole la convenzione. In Iran, anche oggi, la questione non si ferma al capello “fuori posto” di Mahsa Amini e non è un caso se la persecuzione è proseguita con l’avvelenamento di bambine e studentesse, per far chiudere le “scuole femminili”. La persecuzione interviene sempre quando qualcosa rimane fuori dal posto che la convenzione assegna.

Anche in Europa, in Francia in particolare e nel 1801, l’illuminista Sylvain Maréchal scrive un progetto di legge che vieta alle donne di imparare a leggere, indicando come la donna deve restare chiusa nella parabola naturalistica anziché rilanciare il gioco con l’intelligenza. Questo pro getto di legge è basato su una serie di serissime argomentazioni, a partire dalla parola d’ordine “periscano tutte le arti, piuttosto che il pudore!”, perché, scrive Maréchal, “La ragione vuole” che le donne “contino le uova nel cortile e non le stelle nel firma mento”. Del resto, era stato Aristotele, nella Generazione degli animali a situare la donna nel canone del basso – nel ventre, in particolare – per la sua utilità a partorire il figlio dell’uomo, come avviene per gli animali, mentre all’uomo era deputato il comando, il cervello, la parte alta del corpo. La questione ruota anche attorno al corpo. Per il discorso algebrico – che procede tirando le som me – il corpo della donna parla. Ma cosa succede se, per esempio, questo corpo “parla” come non dovrebbe? Nel 1887, il primario della clinica Salpêtrière, Jean-Martin Charcot scrive un libro intorno alle Indemoniate nell’arte (poi edito in Italia da Spirali, nel 1980). Se l’inquisizione aveva localizzato nel corpo “indemoniato” il segno della rovina spirituale, il discorso medico era intervenuto leggendo le esagerazioni del corpo come un “inganno” per mettere in ridicolo le acquisizioni scientifiche. “La loro con dizione” – delle cosiddette isteriche – , noterà poi Freud, “veniva considera ta frutto di simulazione e di esagerazione, indegna dell’osservazione clinica”. Il corpo sfugge alla comprensione.

Ma basterebbe leggere il manuale dell’inquisizione, Il martello delle streghe, pubblicato nel 1486 come testo ufficiale della Chiesa sulla persecuzione contro le donne accusate di stregoneria (anche questo edito in Italia da Spirali). Scritto da due inquisitori domenicani, autorizzati dalla bolla Summis desiderantes affectibus promulgata da papa Innocenzo VIII, il manuale spiega le ragioni dell’inquisizione, la procedura da attuare in ciascun “caso”, nella ricerca del “complotto diabolico”, per spazzare via il sesso che è per loro sempre contronatura se non è “pudico”. E allora: “Non bisogna lasciare in vita neanche una strega”, ritenuta rappresentare il sapere sul sesso. Le donne furono messe al rogo perché accusate di un sapere e di un fare non convenzionali.

Il presunto sapere delle donne deve essere finalizzato alla produzione genealogica. Di questo devono sapere le donne. Allora ecco che negli anni settanta incomincia una battaglia per dire, invece, che la donna ha il diritto sul corpo e al godimento non finalizzato alla produzione della progenie. Ma, anche in questo caso, la questione della parola non viene sfiorata. Il corpo della donna non evita, per dir così, gli indici e gli asterischi del tempo, per esempio con le mestruazioni, con la menopausa, con i cosiddetti segni dell’età.

Età, aevus, aevum, ovvero: tempo, vita, generazione; dall’accadico ewûm, emû: divenire. In effetti: vivere. Non è possibile rappresentare o fermare il divenire, il divenire caso di qualità. Come non è possibile rappresentare o fermare la parola, il suo viaggio. Ecco perché i regimi non riescono: più intervengono proibizioni e prescrizioni e più queste costituiscono occasioni per l’intelligenza artificiale di giullari, poeti, scrittori, artisti e imprenditori. Parlando e facendo, l’arte e l’invenzione proprie della parola non finiscono. E interviene il sorriso, l’accettazione della vita non ideale, della vita che non rientra nei modelli convenzionali.

Il divenire, il viaggio sono propri della parola: viaggio linguistico e narrativo. Nel gerundio della paro la, facendo, le cose sono in viaggio, non sono mai fisse. Nella mia pratica constato che questo viaggio, per ciascuno, va in direzione della qualità, in modi differenti e vari. A ciascuno il suo modo, a ciascuno il modo proprio della parola. A ciascuno la particolarità. Non a ciascuno la convenzione, utile ad arginare la particolarità per ridurla a un puro nulla.

Impossibile rappresentarsi il viaggio: ciascuno viaggia in modo non convenzionale. Per esempio, ciascuno incomincia a parlare in età differenti e in modo specifico e particolare. E non c’è un modo che sia “uguale per tutti”. Se questo viaggio e questo modo non sono misurabili, cioè non sono soggetti all’idea che il tempo possa finire, allora importa il divenire nel gerundio della parola, importa la novità, che sempre esige i dispositivi della parola. Questi dispositivi sono propri del brainworking e rilanciano la vita come non naturale, ma intellettuale.

La vita è intellettuale perché il fare non è naturale. Parlando e facendo, la vita non si riduce a un puro nulla, non ha da purificare tutto ciò che non corrisponde al canone dell’uguale sociale. Contro la novità che interviene parlando da sempre si adoperano la persecuzione e l’invidia, perché l’occhio vede la pagliuzza che disturba l’uniformità, che non consente di confermare la propria idea, l’idea di sé da attribuire all’Altro.

Soltanto facendo s’instaura la tranquillità, propria del gerundio della vita, del divenire che interviene parlando, quindi ascoltando. Le età del la vita sono le età della tranquillità, ovvero le età del fare non ricattato dall’idea di fine, dall’odio di sé che diventa odio dell’Altro da sé. Il fare non finisce intraprendendo nuovi progetti e nuovi programmi, senza più paura della vita come paura della morte. Ciascuna età è età della vita ed è età del fare nel modo differente e vario, nel modo proprio del divenire della vita. Allora, urge per ciascuno rilanciare il progetto e il programma di vita, la differenza e la varietà del fare infinito.