IL TEMPO DISPENSA, L’ALTRO ACCOGLIE

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psicanalista, cifrante, presidente dell’Associazione culturale Progetto Emilia Romagna

L’esigenza di tolleranza è quanto mai condivisa, almeno come la sua assenza. Tutti parlano di tolleranza, di cono che la tolleranza è importante e che bisogna tollerare il diverso, lo straniero, la vittima. E non c’è chi ammetta di essere intollerante. Ma come non cogliere che in questa accezione la tolleranza postula l’uguale sociale e mira all’Unico, risultando segregativa, talora anche razzista, cioè un modo della denigrazione e del la degradazione, della ghettizzazione e dell’assimilazione, dunque dell’inclusione cannibalica, fino all’autofagia?

Questa tolleranza è l’idea della tolleranza, idea che sottopone la relazione alla soggettività e all’intersoggettività e dunque postula la tolleranza come facoltà e possibilità del soggetto del sistema e al sistema. Invece, la tolleranza di cui non abbiamo idea, la tolleranza che non dipende dal soggetto e non definisce il sistema è la tolleranza come virtù e principio della parola.

La parola, non il soggetto, è tollerante: questa la constatazione della cifrematica, la scienza della parola. Proprio perché non è soggettiva, ma della parola, questa tolleranza non rientra nell’idea comune di tolleranza come comprensione o come margine di accettabilità. Lo indica lo stesso etimo: il lessema “tolleranza” deriva da una radice indo-germanica, tal, portare, che si trova in varie lingue, per esempio nel latino con il perfetto tuli (fero, fers, tuli, latum, ferre), sollevare; e poi nell’anglosassone tholian, sopportare, e nel greco tálanton (il talento), peso; e, sempre in greco, talmáo, prendo su di me, quindi intraprendo, mi arrogo, assumo.

La tolleranza della parola non comporta la sopportazione o l’assimilazione: le cose sono nella parola, nella sua portata, nella sua presa. La tolleranza è virtù del principio della parola, per cui è virtù di ciascun elemento della parola. Il titolo di questo numero,La tolleranza del tempo e dell’Altro, non è un appello a farsi carico del tempo e dell’Altro, ma la constatazione che non c’è tolleranza senza il tempo, non c’è tolleranza senza l’Altro, non c’è tolleranza senza la parola e senza le sue virtù. La tolleranza sta qui: la parola agisce, oltre la comprensione, oltre l’accettazione. L’Altro accoglie: questa la tolleranza dell’Altro. Il tempo dispensa: questa la tolleranza del tempo. Senza più l’accettazione del luogo comune, la civitas esige questo accogliere e questo dispensare, che non consentono di togliere il principio della parola e le sue virtù: la tolleranza civile è tolleranza della differenza e della varietà pragmatiche, tolleranza della particolarità e della specificità.

Oggi vige il principio dell’intolleranza, rivolto contro ciascuna particolarità della parola. L’intolleranza rispetto alla relazione è la relazione sociale, è la relazione obbligatoria, è la relazione conformista, è la relazione che toglie, idealmente, la contraddizione. Come sorprendersi se la speranza e il futuro, che esigono la relazione come apertura, sembrano venire meno?

Poi c’è l’intolleranza nei confronti del le idee che avviene sotto il segno dell’uguale e costituisce il pensiero dell’Unico. Questa è la tolleranza cannibalica nella sua forma più specifica, cioè l’autofagia: il pensarsi, il giudicarsi, l’annullarsi, il divorarsi, il distruggersi. Questa intolleranza diventa l’odiumsui e si appunta contro l’Altro e contro il tempo, perché nega la traccia e la memoria, la storia e l’impresa a vantaggio di una realtà spettrale, cioè dipendente dall’idea di sé, basata sull’idea di origine o sul ghénos familiare.

La tolleranza cannibalica è l’accettazione del luogo comune, con tutta la sottomissione e con tutta la soggezione che esso richiede. Qui tutto è tollerato, tranne la parola e le sue virtù, dunque la vita stessa. La morte è assolutamente tollerata, ognuno può decidere di mori re, ognuno ha i suoi buoni motivi per uccidere: è il trionfo dell’eutanasia, è il diritto e la ragione di morte. Questa è la tolleranza contro la vita. Per questo è essenziale l’annotazione di Armando Verdiglione: “L’accettazione della vita è l’altro nome della tolleranza della vita, attiene al principio della parola e delle sue virtù”.

La tolleranza è l’accettazione della vita: nessuna tolleranza senza l’accettazione giudiziaria che vuole farla finita con la della vita, della nostra vita, che è l’accettazione della parola e dei suoi dispositivi, l’accettazione della memoria come esperienza in atto, l’accettazione del sé, del tempo e dell’Altro. Come potrebbe essere considerata tolleranza l’accettazione della morte (attuata dall’eutanasia), l’accettazione della pena (richiesta dal giustizialismo), l’accettazione del terrore (praticata dal pacifismo)? Inaccettabili sono il diritto di morire, il diritto di punire, il diritto di terrorizzare: sono diritti del soggetto, sottoposti all’idea del nulla e all’idea di uguale. Con Giambattista Vico il diritto non è del soggetto, come voleva Cartesio, ma è diritto dell’Altro, diritto non amministrabile e non applicabile dal tribunale, diritto senza pretesa, senza vendetta, senza rivendicazione, senza compensazione, senza pena, senza vittima. Questo diritto è alla base della tolleranza: diritto della parola, di ritto delle genti, diritto incompatibile con l’inclusione e la circolarità. Diritto civile, che trova nell’impresa, nel fare, nella sessualità la sua struttura e il suo modo. Diritto pragmatico che si attiene all’Altro, per questo ogni intolleranza (sociale, politica, ma anche alimentare) è intolleranza dell’Altro e delle sue virtù.

L’Altro e il tempo non sono tollerabili e tollerati: l’Altro tollerato è l’Altro negato, il tempo tollerato è il tempo negato. “Il mio tempo” sarebbe il tempo assoggettato: “faccio con i miei tempi”, “ho bisogno di tempo”, “non è il mio tempo” sono enunciati intolleranti, perché poggiano sulla non accettazione della vita, della nostra esperienza, dei nostri dispositivi. “Ho sbagliato a fare cosi”, “non dovevo fare in questo modo”: la non accettazione della nostra vita non è il rifiuto della pena, è la sua assunzione, dovuta all’odiumsui. Comporta il volgere il bello della vita in percorso sacrificale e mortificante, fino all’autofagia, all’autodistruzione, all’annullamento. “Si ha ragione di rivoltarsi”, diceva Mao Zedong. Aveva torto: la ragione esige la tolleranza del tempo, non la sua negazione, non l’idea che ci sia un tempo alternativo, un tempo sottoposto alla volontà. Il tempo sfata l’arbitrio della volontà, con il tempo pragmatico le cose si fanno nel contingente e secondo l’occorrenza, non secondo la volontà dell’Altro rappresentato, cioè dell’Altro tolto.

Se tolto, idealmente, l’Altro prenderà una forma, diventerà il nome del nemico, che si parerà dinanzi. E la ragione di rivoltarsi risulta la ragione sull’Altro (non dell’Altro) a conferma dell’ultimo tempo, della necessità che il tempo finisca, a partire dall’idea del nulla e della morte. La ragione non è sull’Altro, non toglie di mezzo il suo diritto; è ragione narrativa, esige il tempo narrativo, pragmatico, per ché punta alla scrittura di quel che si fa.

C’è un tempo per il fare? C’è un tempo per la scrittura? La ragione narrativa comporta che il fare, e la sua scrittura, non finiscano, dunque che non siano appannaggio dell’anagrafe. Solo con l’idea della fine del tempo, l’età diventa cronologica e non pragmatica, dunque sottoposta all’idea di morte. Con la tolleranza del tempo l’età è età della vita, non ciò che ci separa dalla morte: solo così l’humus non è il luogo della sepoltura, per un’umanità necrofila, ma il terreno della parola, del fare, della scrittura per ciascuno, come indicano le testimonianze del convegno L’età, le donne, il fare (Bologna, 13 giugno 2023) pubblicate in questo numero. E, attenendosi all’humus, al diritto dell’Altro, l’umiltà non è la modestia (“Io faccio per l’Altro”, ovvero “Io faccio a modo mio”), ma l’assenza di arroganza, la disposizione all’ascolto. L’umiltà è at tenersi al tempo, per cui le cose si fanno secondo l’occorrenza, è non pensare di poter manipolare, gestire, controllare il tempo.

L’indifferenza in materia di humus e di humanitas è la base dell’intolleranza contro il tempo e contro l’Altro. In tolleranza ideologica della vita, del suo profitto, della sua ricchezza. Intolleranza ricerca, con il mercato, con l’impresa, con il viaggio, con l’industria. Intolleranza totalitaria contro le donne, i giovani, gli anziani, i bambini, quando, sotto l’egida dell’idea di dominio (ovvero di padronanza), l’impero tenta di riempire ogni intervallo, di occupare ogni spazio, di contenere ogni corpo, di misurare ogni gesto, di schedare ogni volto, di stirare ogni piega.

Ma chi si attiene alla ricerca e al fare ignora l’intolleranza, perché non poggia sulla soggettività e sull’arbitrio della pro pria volontà, ma si attiene all’occorrenza, dunque al tempo e all’Altro. Per questo ogni impero, del bene o del male che sia, non regge, i suoi sforzi sono vani: parlando e facendo, ricercando e intraprendendo il soffio e il respiro non cessano, la differenza e la varietà non vengono meno, l’intervallo in cui dimorano il tempo e l’Altro non può essere riempito, nemmeno dall’idea che ce ne facciamo. Occupare l’intervallo con il pensiero ci sottopone al sovrappensiero, dunque ci blocca e ci paralizza? Questa è l’intolleranza che ognuno si affligge, quando pensa di poter abolire o fermare il tempo, oppure espungere o rappresentare l’Altro. Ma nell’atto, in quanto atto di parola (e non di pensiero, come credeva il filosofo Giovanni Gentile), il sovrappensiero è fatuo, non ha presa sull’impresa, sulla poesia, sulla politica. E non c’è più autofagia, ma accettazione.

Armando Verdiglione scrive: “La tolleranza è il gusto della vita”. L’accettazione della vita, dunque, non è la sottomissione. Senza la tolleranza, la vita sarebbe senza gusto: sarebbe impossibile vivere, impossibile respirare, impossibile scrivere, impossibile pensare. Il gusto è questione temporale, questione politica, questione sessuale, questione di valutazione e di giudizio temporali, questione di piegatura di ciò che si fa. Le pieghe della vita non si raddrizzano enon si smarriscono: a ciascuna età il suo fare e la sua scrittura.