IL LAVORO: FUNZIONE INTELLETTUALE, NON RELAZIONE SOCIALE

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psicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione culturale Progetto Emilia Romagna

Quando negli anni sessanta un sindacalista, durante un comizio, ripeté il famoso slogan socialista: “Pane e lavoro”, ci fu tra il pubblico chi urlò: “Pane va bene, lavoro anche no”. È un aneddoto forse banale, ma sembra proporre una prima risposta alla domanda: “Perché oggi non è facile trovare lavoratori?”. Sul lavoro pesa una maledizione, il lavoro non piace, è rifiutato, è negato; tra l’altro, in latino laborare voleva dire “soffrire” (ex stomaco laboro indicava “ho mal di stomaco”) e in alcune regioni ancor oggi “lavorare” si dice “faticare”. Perché il lavoro viene rifiutato? Perché diventa una pena? Sarebbe facile rispondere: perché è faticoso. Però, spesso anche gli hobby, soprattutto gli sport, sono faticosi, ma non per questo sono disprezzati, tutt’altro. Per cui, da dove viene questa condanna così diffusa?

Nel 1984 la casa editrice Spirali pubblicò il libro dell’antropologo Tadao Umesao Il Giappone nell’era planetaria. Era il primo libro scritto da un giapponese sul Giappone moderno, che allora suscitava l’interesse di tutto il pianeta per il suo boom economico. Quando Umesao venne in Italia a presentarlo, gli chiesi come mai, in Giappone, la produzione industriale e l’occupazione crescessero in modo vertiginoso e, invece, non ci fossero notizie di scioperi e di rivendicazioni operaie. Lui mi disse che in Giappone non c’erano sindacati e che i lavoratori erano entusiasti di lavorare sempre più, perché un aumento di lavoro comportava un aumento di guadagni. Incredulo, gli chiesi: “E la lotta di classe?”. “In Giappone non c’è – rispose –, noi non abbiamo avuto il pensiero di Hegel e nemmeno quello di Marx. La lotta servo-padrone è questione di filosofia, non di necessità storica”.

A quei tempi mi sembrò un’eresia. Poteva esistere il lavoro senza una dialettica tra opposti, senza una polarità, senza che il due diventasse conflitto? Ma, senza arrivare a Marx, consideriamo la Grecia antica, ovvero Platone e Aristotele, di sicuro estranei alla logica giapponese. Ebbene, Aristotele fonda sulla coppia servo-padrone, che era la coppia produttiva di allora, il paradigma della relazione sociale, al punto che su di essa si modulava, secondo lui, la coppia padre-figlio e anche quella uomo-donna. Insomma, fin dai suoi albori, nella logica occidentale il lavoro non è una funzione indipendente, ma è ingabbiato in un rapporto, in una relazione sociale. E questa relazione sociale comporta la polarità: superiore-inferiore, sopra-sotto, sacrificante-sacrificato.

La polarità superiore-inferiore venne sancita dalla favola di Fedro, che scrive: lungo il fiume “superior stabat lupus, longeque inferior agnus”. Nell’apologo, il lupo accusa l’agnello d’inquinargli l’acqua: accusa impossibile, data la sua posizione a monte del fiume, ma che vale a fissare, nei secoli, che il lupo è prepotente e politicamente scorretto e, ancor più, a stabilire che chi sta sopra, il superiore, il lupo, è cattivo e chi sta sotto, l’inferiore, l’agnello, è buono, è la vittima. Occorreva Friedrich Nietzche in Genealogia della morale per spiegare che il lupo non è cattivo, fa quel che deve fare – fa il suo lavoro, potremmo dire – e che le pecore considerano cattivo il lupo solo perché fa quello che esse vorrebbero ma non riescono a fare. Nietzsche, per questa via, mostra quanto la morale poggi sull’invidia sociale. E che cosa oggi è più condiviso dell’invidia sociale? Quanti ancora oggi non ragionano nei termini superiore=cattivo=carnefice e inferiore=buono=vittima, prescindendo dalla particolarità, dalla singolarità e dalla specificità? Se l’idea di relazione domina sul fare, spetta al posto o alla posizione nella relazione stabilire il valore di una persona o di un’impresa.

Come si assegna questo posto? Friedrich Hegel, con cui la relazione diventa dialettica, dunque scontro, sostiene che è l’esito di una lotta definita “di puro prestigio” perché è in gioco il desiderio di riconoscimento: padrone sarebbe chi non cede sul proprio desiderio e servo chi vi rinuncia, sottomettendosi. Ma, allora, come può il lavoro essere ammesso se rientra in questa dialettica, se è la prova della rinuncia coatta del lavoratore al proprio desiderio?

Questa logica relazionale ha anche altre implicazioni. Dal sottomettersi nella relazione negando il proprio desiderio, il servo pretende di trarre il proprio prestigio, la propria superiorità morale, cioè fonda il suo primato sull’essere vittima. E, ancora oggi, basta compulsare un manuale di diritto del lavoro o di psicologia del lavoro per cogliere come il lavoro sia inteso non come un’attività di chi svolge la propria funzione, ma come un legame, come una polarità permeata da rapporti di forza, come scrive Marx, o da una dialettica del desiderio, come direbbe Jacques Lacan. C’è un libro di economia o di filosofia del lavoro che non consideri il lavoratore come il partner debole – a cui viene sottratta la forza e, ancor prima, il desiderio –, dunque da tutelare, affinché questo furto sia compensato da un equo salario? Del resto, come nota Pietro Ichino, questo è il motivo per cui nasce il diritto del lavoro (che sarebbe più giusto chiamare il diritto dei lavoratori): un diritto come eccezione rispetto al diritto civile, un diritto sbilanciato a favore di una parte, con il pretesto che essa sarebbe la più debole, quella da tutelare sempre e comunqueASDFIl libro di Ichino, L’intelligenza del lavoro (Rizzoli), cui si riferiscono molti testi in questo numero, è straordinario perché mette in discussione questa mitologia. E si chiede: perché dobbiamo credere che il lavoratore sia sempre vittima? Perché il licenziamento sarebbe per forza una pena e non un vantaggio per il lavoratore? Perché pensare che le nuove tecnologie siano sempre una spada di Damocle per il lavoratore, anziché uno strumento che egli può utilizzare per lavorare meglio? Perché la mobilità interna e internazionale dovrebbero sempre essere subite e mai utilizzate?

Questa questione del soggetto forte e del soggetto debole nasce da un arcaismo, dal fatto che dai tempi di Aristotele fino a quelli di Hegel il lavoro era la fonte della forza. Il lavoratore, e prima ancora lo schiavo, serviva a produrre l’energia utile per tutti, era la massima fonte di energia, assieme al legno e a qualche specie animale. Di qui il concetto di forza-lavoro, del lavoratore macchina, e la dicotomia tra chi ci mette le braccia (i braccianti) e chi la testa (i capi), sempre in relazione tra loro, sempre in conflitto tra loro. Ma questo è un arcaismo: con la modernità, l’introduzione delle macchine e dei carburanti (carbone, petrolio, nucleare) ha tolto ai lavoratori l’impegno di essere fonti di energia, di energia utilizzata da altri. Dunque la relazione tra chi produce e chi usa l’energia, con tutte le fantasie cannibaliche e vampiristiche che comporta, è obsoleta, è un ricordo dell’era pre-industriale.

Con la modernità, lavorare non è entrare in relazione con qualcuno, è avviare un processo di produzione e di arte, che dissipa l’idea marxiana di espropriazione. Nel secondo rinascimento, con il lavoro qualcosa incomincia procedendo dall’apertura per integrazione, non dipendendo da un sistema di relazioni interdipendenti: il lavoratore è auctor, autore e, anche se ha mansioni di segreteria o di manovalanza, non è dipendente, non può impedirsi l’auctoritas. E l’elaborazione, che ha lo stesso etimo di lavoro, trae con sé l’auctoritas, che è aumento, rilancio, crescita, incremento: l’auctoritas non consente che l’elaborazione risulti la sistemazione o la digestione spirituale. È elaborazione originaria nella parola, non un esercizio del soggetto. Nonostante Sigmund Freud, secondo cui la società incomincia con la morte del padre, l’elaborazione del lutto non è la riorganizzazione di un sistema relazionale dopo la morte, ma l’incominciamento e l’inaugurazione di una struttura altra, in cui il lavoro con il suo funzionamento s’interseca con il gioco. Nessuna funzione di morte nel laboratorio, dove la ricerca è intellettuale: il laboratorio si struttura nell’intersezione di macchina e di tecnica, di invenzione e di arte, di formazione e di gioco. Dal laboratorio alla bottega, dal rinascimento della parola alla sua industria, come potrebbe mantenersi la dicotomia tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra mano e cervello? Nell’azienda in cui ciascuno è brainworker, il cervello dell’impresa non è appannaggio dei dirigenti: il cervello è il dispositivo (con il suo ritmo, con la sua combinazione), in cui si trova ciascuno che partecipa all’azienda. Anzi, cervello sono i vari dispositivi: il dispositivo organizzativo, il dispositivo operativo, il dispositivo produttivo, il dispositivo finanziario, il dispositivo di controllo, il dispositivo di direzione, il dispositivo amministrativo e altri ancora. Nella galassia dell’azienda, questi dispositivi di lavoro non devono sottostare alle polarità superiore-inferiore, maggiore-minore, responsabile-irresponsabile. E ciascun dispositivo non prescinde dal rischio, che non è più peculiarità di uno dei due poli dell’androgino aziendale dirigente-dipendente. Nonostante ciò che il premio Nobel 2014 Jean Tirole scrive nel libro Economia del bene comune: “Il lavoratore non è responsabile dello sviluppo tecnologico o della crisi della domanda subiti dall’impresa. Deve quindi essere assicurato contro il rischio che il suo tipo di lavoro diventi obsoleto o semplicemente non redditizio”. Tirole ha torto: per lui il lavoratore è la vittima inconsapevole di quel che succede e palesa come il privilegio del lavoratore poggi sulla sua irresponsabilità. Ma se non fosse responsabile il lavoratore, perché dovrebbe esserlo l’imprenditore? Perché delegare a lui la responsabilità dello sviluppo tecnologico o della crisi della domanda, tanto più in quest’era globalista, in cui la situazione dell’impresa è dettata da politiche economiche e finanziarie in cui la singola azienda, ma spesso anche il singolo stato, può fare ben poco? Nell’impresa del secondo rinascimento il lavoro, la responsabilità e il rischio non sono ripartibili, delegabili, non sono cioè funzionali alla creazione del capro espiatorio (in questo caso rappresentato dall’imprenditore, che da presunto sacrificante dovrebbe diventare sacrificato), colui che deve espiare “le colpe della comunità”, ovvero farsi carico dei problemi della città. Non a caso, appena gli imprenditori formulano richieste e proposte alla classe politica, il burocrate di turno risponde che gli imprenditori “devono fare la loro parte, smettere di chiedere e investire”. Come se non lo facessero già, ciascun giorno. Ma se gli imprenditori sono il capro espiatorio della città, se l’azienda si fonda sul capro espiatorio, la città stessa è la città dell’espiazione, la città in cui c’è qualcuno che paga per tutti, in cui la pena di qualcuno deve redimere la pena di tutti: la città della pena.

Di nuovo, la questione: quando il lavoro diventa una pena? Negli incontri di brainworking constato che sorgono molte problematiche nell’azienda quando la relazione sociale ha il primato sui dispositivi produttivi. Può accadere che il dipendente s’impegni per costruire una buona relazione con il dirigente o i colleghi, piuttosto che per riuscire nella produzione o nella vendita, cosicché le simpatie e le empatie, anziché il profitto e il valore, indicano la direzione all’impresa e a chi ci lavora, con gravi danni. O, al contrario, accade che un lavoratore (ma anche un dirigente) molto abile nello svolgere il proprio lavoro resti bloccato per problemi relazionali di antipatia, di timore, d’insopportabilità nei confronti del suo superiore (o del suo inferiore). Sorgono così i compromessi fantasmatici, subentra la fantasia di essere vittima di mobbing e dilaga il burnout, la delusione rispetto a un lavoro che pure era considerato interessante. In questi casi la relazione decide sul fare, conta più la personalizzazione che la professionalità. Come sorprendersi se in questa pesantezza delle relazioni l’idea di pena dilaga (l’idea di pena, come Caterina Giannelli nota nel suo intervento, dipende dal giogo della relazione), come lamentarsi se i dispositivi lavorativi s’inceppano?

I dispositivi lavorativi si bloccano perché inscrivere il lavoro in una relazione vale a sottoporlo all’idea di unità: nella relazione intersoggettiva tra due, gli opposti si unificano, fanno uno. Questa unità androginica padrone-dipendente non è produttiva, operativa, pragmatica, è spirituale, è tenuta insieme dal presunto spirito dell’azienda, è sorretta dall’idea dell’azienda come sistema. Il sistema è androginico, unificante, nega la differenza e la varietà che procedono dal lavoro, nonostante ciò che sostengono i fautori dell’unità dei lavoratori. Questa unità non riesce mai, perché un lavoratore non è uguale a un altro, anzi, non è nemmeno uguale a se stesso, non è e non ha da essere un’identità definita e immutabile. Il lavoratore abita, per dir così, il movimento, ha la sua specificità nell’erranza, nel nomadismo, altro che nel posto fisso!

L’impresa che procede dalla relazione come apertura e non come sistema, in cui il lavoratore è più autore che dipendente, più errante che fisso è l’impresa alla base della città del secondo rinascimento. Questa città non è vincolata al ricatto della relazione sociale, con i suoi corollari: la rivendicazione, l’invidia, la vendetta. È la città di chi lavora, di chi trova, di chi fa, senza più pena. È la città della ricerca e dell’impresa, città del tempo, non dello spirito, città della differenza, non dell’androgino trinitario, è la città in cui ci troviamo noi, qui e ora, la città del tempo, la città del brainworking, la città del secondo rinascimento.