LASCIAMO CHE LE IMPRESE GENERINO PROFITTI

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presidente di Termal Group Srl, Bologna

Il 22 maggio scorso è stato inaugurato a Bologna il nuovo stabilimento F.I.V.E., Fabbrica Italiana Veicoli Elettrici, con la partecipazione straordinaria del Ministro dell’Ambiente Gianluca Galletti. Ma F.I.V.E. è assurta agli onori delle cronache già da qualche anno, quando è stata segnalata come uno dei primi casi nazionali d’inversione di tendenza, delocalizzando la produzione dalla Cina in Italia. L’industria italiana delle due ruote elettriche che ha aperto i battenti a Bologna prelude forse alla nascita della nuova “Bike Valley”?
F.I.V.E. produce biciclette e ciclomotori elettrici a marchio Wayel, Italwin e Momodesign, è quindi orientata alla mobilità urbana attraverso veicoli non inquinanti e ecocompatibili. Il nostro Gruppo, cui F.I.V.E. appartiene, ha una conoscenza dell’Asia da molti anni, in particolare da oltre trent’anni, cioè da quando il Gruppo Termal è distributore dei sistemi di climatizzazione del gigante giapponese Mitsubishi Heavy Industries. Dallo sviluppo in Cina della mobilità elettrica a due ruote abbiamo preso spunto per avviare in quel paese, nel 2008, una produzione di biciclette elettriche, basandoci però su design e elementi tecnici made in Italy, da noi studiati e progettati.
Gli elementi che ci hanno convinti a produrre in Italia sono molti: in Cina i costi della manodopera sono in costante incremento, riducendo il vantaggio competitivo, occorre poi aggiungere i costi della logistica e l’opportunità della formazione tecnologica ampiamente disponibile in Italia in tanti giovani oggi disoccupati. Infine, la possibilità di controllare nel processo produttivo la qualità, elemento fortemente richiesto dal mercato.
Ci auguriamo che F.I.V.E. possa diventare la mile stone di una Bike Valley.
Cosa l’ha convinta a investire nella cosiddetta economia verde quando ancora non se ne parlava? E perché occorre investire in tale ambito?
Credo che l’economia verde stia avviando una grande rivoluzione industriale. Attraverso le nuove tecnologie per il risparmio energetico, siamo in grado di recuperare i costi espressi dal ciclo dei combustibili fossili. La nuova rivoluzione consiste non nell’aumentare la produzione a parità di costo ma a ridurre il costo a parità di produzione, intendendo come costi sia quelli diretti sia quelli indiretti (inquinamento, salute, ecc.) causati dal ciclo del carbonio. È chiaro che in questo processo, come nelle precedenti rivoluzioni industriali, fra i costi e i ricavi si genera uno spazio di profitto che alimenta nuovi investimenti in un ciclo virtuoso che può essere definito rivoluzione industriale.
F.I.V.E. è un caso di eccellenza in Europa, poiché, oltre a produrre veicoli elettrici a “emissioni zero”, ha dimostrato di poterlo fare in un processo totalmente green. In F.I.V.E. tutta la produzione industriale, oltre al comfort abitativo e all’illuminazione, è realizzata esclusivamente tramite energie rinnovabili prodotte nello stesso stabilimento. La catena di montaggio e i forni di verniciatura funzionano con l’energia prodotta da pannelli fotovoltaici. A ciò si aggiunga che fra le pompe di calore Mitsubishi Heavy Industries, per il comfort e la climatizzazione, abbiamo inserito Qton che utilizza come refrigerante CO2 ovvero un gas naturale a GWP 1, il più basso in assoluto nella scala dei parametri per il riscaldamento globale. Sono poche le aziende nel paese che attualmente sono più green di F.I.V.E.
Nell’era della post globalizzazione, come intende il ritorno alla produzione made in Italy?
È una questione complessa. La globalizzazione è stata un evento compensativo ineluttabile a livello mondiale che ha portato un aumento notevole della qualità della vita in zone del mondo dove regnava la povertà più profonda, soprattutto in Asia. L’occidente ha inizialmente ritenuto di poter governare questo fenomeno interpretandolo come una sorta di neocolonialismo: investire e insediare attività produttive attuali all’estero per generare attività produttive più avanzate in patria. Si drenava il risparmio occidentale per investire in Cina, paese in grado di produrre a costi inferiori, per poi acquistare i beni lì fabbricati. Apparentemente il minor prezzo di acquisto dei beni rappresentava una maggiore ricchezza per Stati Uniti ed Europa. La realtà è stata ben diversa. La massiccia produzione in Asia ha ovviamente coinciso con la deindustrializzazione dell’occidente, che riduceva il lavoro, soprattutto manifatturiero, ed esportava di fatto ricchezza in modo imponente.
A questa progressiva riduzione di ricchezza non è seguita una riduzione dei servizi di welfare, nel tentativo di non rendere evidente alla popolazione il progressivo impoverimento. È stato un welfare finanziato a debito. Il già elevato livello d’indebitamento di paesi come l’Italia ha causato poi un accanimento fiscale per recuperare risorse, orientandolo principalmente sulla proprietà e sulla casa (patrimonio principale della classe media).
Queste politiche hanno causato l’impoverimento della classe media con la drastica riduzione dell’economia nel paese. A farne le spese è stata un’intera generazione di giovani oggi senza prospettiva se non quella di emigrare. Soltanto di recente si torna a parlare di nazionalizzazione e di difesa della propria ricchezza nazionale.
Queste nuove premesse possono riportare in Italia alcune produzioni che potrebbero favorire un ritorno del paese alla competitività. Ma non sarà cosa semplice, perché i processi di deindustrializzazione hanno causato la perdita di anelli della catena produttiva difficili da ripristinare. Tuttavia, questo processo è in atto e può divenire una grande opportunità. Va pertanto coltivato, anche per offrire, attraverso la leva imprenditoriale e quella industriale, nuove opportunità alle giovani generazioni, altrimenti destinate alla disoccupazione.
Negli anni della deindustrializzazione è stata osannata l’economia verde come se fosse alternativa all’industria…
È vero. Il politicamente corretto ha portato a una comunicazione pubblica di appoggio al processo di globalizzazione (e quindi di deindustrializzazione del paese). In questo contesto inizialmente l’economia verde veniva descritta come strumento di rifiuto dell’industria. Una sorta di decrescita felice poi diventata infelice e deprimente. Non credo che l’economia del paese possa essere alimentata soltanto da servizi e turismo. Nei paesi che vivono soltanto di turismo o di servizi si creano criticità difficili da superare.
Turismo e servizi hanno nella leva del prezzo il loro massimo potenziale competitivo e quindi sono sempre attaccabili da paesi emergenti. Per sviluppare l’economia del nostro paese occorre l’integrazione di diversi settori dell’economia, e l’industria manifatturiera è fondamentale. Ricordiamo che in Italia abbiamo una grande tradizione manifatturiera e di artigiani della qualità fin dal medioevo. Questo ci ha consentito nel dopoguerra di divenire uno dei sette paesi più industrializzati al mondo. Dobbiamo tornare a produrre in Italia, soprattutto ora, dal momento che in Cina e nei paesi della delocalizzazione la produzione non è più così competitiva.
Questo rilancio è possibile grazie alle imprese che ancora producono in Italia, ma occorre anche che le istituzioni favoriscano questa direzione…
Il concetto di economia pubblica appartiene ormai al secolo scorso. Lo stato imprenditore ha miseramente fallito. La direzione che si richiede al governo del nostro paese è invece quella di consentire una vera liberalizzazione dell’economia. La green economy è un’economia di tipo diffuso e a buon contenuto di manodopera, in quanto è sostitutiva di processi e tecnologie orientate al ciclo del carbonio, ormai banalizzate e obsolete. Sarebbe sufficiente ridurre la burocrazia e lasciare che le imprese esercitino il loro ruolo: realizzare profitti in un contesto di rivalutazione del merito e della funzione sociale dell’imprenditore. Questo indirizzo culturale va accompagnato da una forte riduzione della pressione fiscale sulle imprese, così da incentivare la nascita di nuove attività, soprattutto a opera delle nuove generazioni. Chi lavora di più, chi lavora meglio è giusto possa avere maggiori guadagni e garantirsi un migliore livello di vita. È uno stimolo assolutamente necessario per la reindustrializzazione del nostro paese.
La tecnologia e l’industria, che offrono un importante apporto all’ambiente e alla salute, come dimostra il caso di F.I.V.E., vengono talora considerate contro l’uomo, perché comporterebbero la riduzione di posti di lavoro. È davvero così?
Una delle accuse che è sempre stata fatta alla tecnologia è proprio questa, fin dai tempi dei telai tessili dell’industria britannica del Settecento, quando si diceva che toglieva lavoro alle filatrici. Abbiamo visto che non è andata così. In realtà, nel momento in cui avviene un aumento della produzione a parità di costo, la tecnologia mette a disposizione della collettività più prodotto e più ricchezza. Poi il meccanismo della libera concorrenza produce un processo virtuoso di riallocazione delle risorse, in quanto la maggiore ricchezza prodotta genera maggiori investimenti e maggiori consumi.
Ma in quali termini la tecnologia sta trasformando anche il modo d’intendere il lavoro?
Oggi, il giovane lavoratore ha un’istruzione di livello medio superiore, per cui non è più un semplice operatore manuale. Questa trasformazione fa parte della storia del progresso tecnologico dell’umanità. Ma sappiamo anche che oggi la disoccupazione tra i giovani, anche tra quelli che hanno completato il percorso di studi, è molto alta. Ritengo che ciò avvenga perché in Italia non s’investe abbastanza in tecnologia e non si agevola la creazione del profitto. Operando su questi due fattori si ritorna competitivi e quindi la produzione potrà tornare a livelli tali da consentire l’aumento dell’occupazione. Negli ultimi tempi, i nostri governanti stanno procedendo nella direzione di agevolazioni fiscali e ammortamenti per sopperire a questa situazione. Questi sono tentativi, forse timidi, di riprendere una politica industriale nel nostro paese. Sono fiducioso che ciò avvenga e che torneremo ai tempi d’oro.
Come lei intende oggi la realtà intellettuale dell’impresa?
Il modo di fare impresa è cambiato, come peraltro è accaduto per gli imprenditori, ma il compito specifico dell’imprenditore è sempre quello di generare ricchezza e profitti. Questo avviene se l’imprenditore è lungimirante nelle decisioni anche rischiando e investendo prima di altri. Questo tipo di processo è caratteristico delle economie liberali e funziona se il sistema paga un premio per questo rischio che l’imprenditore assume e se il mercato dei capitali di rischio torna a funzionare in modo corretto. Una provocazione: ogni start up abbia un periodo di attività iniziale completamente defiscalizzato anziché defiscalizzare i ricchi stranieri che prendono la residenza in Italia. Ribadisco: abbiamo necessità di riaffermare la funzione sociale dell’imprenditore.