IMMIGRAZIONE, TUTTO QUELLO CHE DOVREMMO SAPERE

Immagine: 
Qualifiche dell'autore: 
giornalista, direttore di “Analisi Difesa”

C’è chi sostiene che un dibattito sereno sull’immigrazione sia impossibile, perché le spaccature ideologiche comportano immediatamente uno scontro tra chi è per l’accoglienza a tutti i costi e chi vorrebbe respingere chiunque arrivi. Con il libro Immigrazione: tutto quello che dovremmo sapere, che ho scritto con Giuseppe Valditara, docente di diritto pubblico romano, e con Gian Carlo Blangiardo, docente di demografia, ho cercato di evidenziare alcuni dati importanti e di fornire proposte, anche in controtendenza, ma con l’intento di stimolare una discussione.
Consideriamo per esempio il luogo comune secondo cui gli immigrati ci servono per far fronte al calo demografico. Io, da padre, credo che servirebbero più gli asili nido o gli assegni familiari, come in Francia, o persino in Russia, dove sono stati costruiti molti asili nido, tutti gratuiti. Blangiardo ci dimostra nel libro che i migranti non potranno contrastare il calo demografico, perché il tasso di fertilità delle donne immigrate, che è elevato finché restano nel loro paese, cala appena esse vengono in Italia, e diventa simile al nostro. Le ragioni sono soprattutto sociali ed economiche, come il costo della vita e il fatto che qui, spesso, per mantenere una famiglia bisogna lavorare in due, con minor tempo da dedicare ai figli. Un altro aspetto concerne il presunto bisogno di nuova forza lavoro. Ma tutte le aziende stanno investendo su uno sviluppo tecnologico che renderà meno necessaria la forza lavoro o ne richiederà una più qualificata. E allora emerge un altro aspetto importante. Se nell’Europa settentrionale, dove il tasso di scolarità è molto alto, l’immigrazione comporta solamente costi di welfare e di ordine pubblico, nell’Europa meridionale (inclusa l’Italia), dove il tasso di scolarità è molto più basso, questo tipo di immigrazione comporterà una concorrenza al ribasso sui lavori poco qualificati. Quindi lo slogan, definito da tutti populista, secondo cui gli immigrati rubano lavoro agli italiani, in Italia, è valido, almeno per certe fasce. C’è chi dice che gli italiani non vogliono più svolgere alcuni lavori, ma recentemente il Comune di Palermo ha bandito un concorso per lustrascarpe e si sono presentati in cinquantotto, laureati e diplomati.
Poi, ci sono anche altre valutazioni. Valditara riporta le citazioni di alcuni importanti esponenti della cultura e della politica di Roma antica, che erano diventati romani perché appartenenti a popoli assoggettati e assimilati, a cui Roma aveva dato la cittadinanza. Poiché chi era nato nel Nord Africa, occupato dai romani, aveva assimilato la cultura romana, non c’era nessun motivo per non farlo diventare un cittadino romano. Ma nel momento in cui Roma, nel tardo impero consente, soprattutto a popoli non assimilati, di entrare nei confini, incomincia il declino che poi porterà al tracollo dell’impero. L’idea di scegliere coloro che tra gli immigrati sono più simili a noi culturalmente sembrava una bestemmia, ma qualche tempo fa il CSU, il partito bavarese cristiano che sostiene Angela Merkel, l’ha indicata come criterio.
Per soffermarci su un aspetto che è legato alla comunicazione e alla funzione delle parole, ricordo che nel libro 1984, di George Orwell, il regime introduce la neolingua, con cui cambia le parole per togliere di mezzo i concetti che queste indicano. Oggi c’è un decalogo per i giornalisti, accettato da tutte le testate, secondo cui non si può più usare il termine “immigrato clandestino”, perché, come mi disse il vice-ministro degli esteri con delega alla cooperazione internazionale, Mario Giro, che fa parte della comunità di Sant’Egidio, “è un termine che crea esclusione, invece noi vogliamo includere”, per cui bisogna usare il termine “migrante”. Ma “migrante” definisce chi arriva con il visto sul passaporto: se chiamiamo migranti coloro che arrivano pagando i criminali, chi ha il visto regolare come lo chiamiamo, ingenuo? Altri parlano di naufraghi, ma il naufrago è chi, navigando per diletto o per mestiere, subisce un imprevisto, naufraga e viene soccorso. Come definire naufrago chi, appena salpato, chiama con il satellitare la capitaneria di porto che lo venga a prendere e lo porti in Europa? Viene proposto anche il termine “rifugiato”, che però è uno status giuridico preciso, attribuito dopo l’arrivo in Italia, e riconosciuto a una percentuale minima di quelli che fanno domanda. Quindi “immigrato clandestino” è un termine giusto, giuridicamente, perché lo scafista che accompagna il barcone e che viene incriminato sempre, incarcerato quasi mai, commette un reato che si chiama favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Questo controllo sulla lingua non è casuale: provate a immaginare il titolo di un articolo sul presidente ungherese: “Viktor Orban: tutti i clandestini a casa loro”. Chi leggesse questa frase potrebbe condividerla, perché nessuno ritiene giusto ospitare clandestini. Ma se leggiamo: “Viktor Orban: tutti i rifugiati a casa loro”, allora possiamo criticare il presidente (come accade) e dire che è un criminale. Allora, l’importanza delle parole, soprattutto su questa vicenda, è basilare. Sono state costruite parole nuove anche per indicare coloro che si battono per la difesa dell’identità e gli interessi nazionali, per esempio la parola “identitari”. Sono populisti? No, peggio. Oppure la parola “sovranisti”. Saranno dei monarchici? No, sono quelle persone riprovevoli che vogliono difendere la sovranità dello stato, in un momento in cui le nazioni devono sparire, altrimenti l’Europa non riesce a edificarsi. Come disse il premier Monti, questa crisi, costruita ad arte, servirà per costringere i governi e gli stati a cedere sovranità all’Europa. Il problema è che questa Europa ci sta togliendo le patrie ma non è ancora una nazione.
Il vero dramma è che, per la prima volta nella storia, un paese (l’Italia) o un intero gruppo (l’Unione Europea) hanno rinunciato a difendere i propri confini. Non è mai successo prima. È accaduto non davanti a un invasore che ci ha sconfitto con le armi, ma di fronte a un’ondata umana gestita da organizzazioni criminali che (lo dicono i servizi di intelligence, la NATO, i nostri stessi politici) è gestita da organizzazioni criminali legate a gruppi terroristi islamici, Al Qaeda, nel Maghreb islamico, e allo Stato islamico. 13 Lungo le mie ricerche per questo libro ho trovato che fu addirittura il Ministro degli Esteri del 2013, Emma Bonino, il primo a indicare una connessione tra questi flussi e gli interessi dei terroristi. Ma anche Paolo Gentiloni, da Ministro degli Esteri, l’ha detto alcuni mesi fa, prima di diventare Presidente del Consiglio, in un vertice a Londra. È un dato accertato, rilevato e riconosciuto da tutti, eppure, questi flussi non vengono impediti. Il risultato è che, se l’Europa rinuncia a difendere i propri confini esterni, i singoli stati devono ripristinare le singole barriere sui confini interni. L’Europa collassa (avremmo avuto la Brexit senza l’emergenza immigrazione?), così ogni paese resta sovrano. E qualcuno resta sovrano e qualcun altro un po’ meno. L’Ungheria fa i suoi muri, li fanno tutti gli altri. Oggi abbiamo un’Europa piena di muri, tanto criticati, ma i muri servono. Se Vienna non avesse avuto le mura, l’invasione islamica sarebbe avvenuta cinquecento anni fa, proveniente non dalla Libia, ma da Vienna, da nord. Israele ha fatto un muro, definito riprovevole, che ha diminuito del 98 per cento gli attentati in territorio israeliano, salvando da morte certa, secondo le stime, almeno venticinquemila civili israeliani.
Trump sta espellendo tutti gli immigrati illegali che hanno compiuto reati. Prima i reati più gravi, ora i reati minori. Nessuno lo dice, ma Obama ha un record: durante la sua amministrazione ha cacciato 2,8 milioni di immigrati clandestini dagli Stati Uniti. Il muro del Messico è stato incominciato da Bill Clinton, con il voto favorevole sia di Obama sia di Hilary Clinton, allora senatori. Ora Trump vuole completarlo. L’anno scorso, quasi un migliaio di cittadini cubani intercettati sui barconi mentre cercavano di arrivare in Florida furono respinti e nessuno ha gridato allo scandalo.
Molti sostengono che l’emergenza immigrazione sia un’emergenza umanitaria, ma a mio parere non è vero, perché non stiamo accogliendo disperati. Per esserne sicuro, due anni e mezzo fa, sono andato in Niger. Il Niger è il punto di raccolta di tutti gli immigrati dell’Africa occidentale che da lì, con gli autobus, vanno ad Agadez, porta del deserto, e da lì, per arrivare in Libia e alle coste libiche, incominciano a pagare i trafficanti dai cinque ai diecimila euro. In Niger, le persone che lavorano sono poche e guadagnano fra i trenta e i quaranta euro al mese. Il Niger è fra i tre paesi più poveri del mondo, assieme alla Somalia e all’Afghanistan. Non occorre andare nei villaggi isolati per vedere i bambini nudi con le pance prominenti, gli occhi in fuori e i capelli quasi biondi a causa della denutrizione. Se facessimo un’attività umanitaria, dovremmo andare a prendere quei bambini, che non hanno i soldi per pagare i trafficanti. Nella mia carriera di reporter di guerra, ho visto moltissimi profughi di guerra, erano quasi tutti donne, vecchi e bambini, mentre gli uomini restavano a combattere. Oggi, l’82 per cento di africani proviene da paesi dove non c’è la guerra. Viene addirittura da paesi considerati “le tigri africane”, per il tasso di crescita del loro PIL. Sono tutti uomini fra i sedici e i quarant’anni; le donne sono pochissime, salvo la tratta di donne provenienti dalla Nigeria. I nigeriani, che gestiscono i traffici di prostitute, una volta mandavano qua le ragazze con il biglietto aereo visto turistico. Dicevano loro: “Farai la cameriera, farai la badante” e le facevano sparire. Adesso non gli conviene più, perché hanno stabilito questa sorta di convenzione con i trafficanti, per cui l’organizzazione della prostituzione nel giro dei nigeriani ha un prezzo fisso molto basso per le ragazze che vengono portate in Libia e da lì imbarcate. Arrivano in Italia, vanno in un CIE, arriva un loro amico, le porta via, tanto nessuno se ne accorge. Molti ospiti scappano dai Centri d’accoglienza, non vengono neanche contati: poiché vengono versati dei soldi per ogni persona accolta, se gli ospiti venissero contati e risultassero in numero minore, i soldi dovrebbero calare. Persino la grande criminalità organizzata, come quella del racket della prostituzione, ha trovato nei barconi dei trafficanti un vettore più economico di Ryanair.
Quelli che arrivano qui sono benestanti. Io ho parlato con diversi ragazzi in Niger, convinti che con questo investimento potevano venire in Europa, essere accolti, ricevere una casa, avere un buon tenore di vita. I vescovi africani, assieme alle organizzazioni internazionali per l’immigrazione, cercano di convincere la gente a restare in Africa, perché proprio coloro che hanno studiato, che hanno qualche risparmio, rappresentano un futuro per il loro paese. Però, quei giovani accendono la TV e quando vedono il nostro benessere, le nostre navi che li portano sulle nostre coste e sentono le gerarchie cattoliche in Italia dire che un buon cristiano deve accogliere tutti, decidono di partire, con grande sconforto dei loro vescovi, che non condividono quello che dicono i vescovi europei.
Secondo l’intelligence Europol, il traffico di clandestini frutta ai trafficanti 6 miliardi di euro all’anno. Quanto vale (e qui non sono più stime) l’accoglienza dei migranti in Italia? L’anno scorso, sono stati stanziati 3,8 miliardi dal nostro governo assieme a una parte dei fondi europei. Quest’anno le stime sono 4,2 miliardi di euro. L’anno scorso abbiamo raggiunto il record: 181 mila arrivi, di cui soltanto 350 persone venivano dalla Siria. Le organizzazioni internazionali vanno a prendere molti migranti vicino alle spiagge libiche, grazie a un’intesa con i trafficanti. Questo non è soccorso in mare, soccorso umanitario, ma è complicità con organizzazioni criminali che tutti dicono essere colluse direttamente con organizzazioni terroristiche. La collusione è configurata dal fatto che una parte di questi proventi finanzia l’Isis e Al Qaeda, e che in questi flussi si inseriscono anche personaggi legati a questi movimenti. Non è un mistero che buona parte del gruppo di fuoco che colpì in Francia o di molti attentatori che hanno ucciso in Germania fossero tra i rifugiati o tra i richiedenti asilo.
I clandestini che arrivano in Italia partono da un settore ben preciso della costa della Tripolitania, fra il confine tunisino e Tripoli. In realtà, è un’area ancora più ristretta, intorno a Az Zawiyah e Sabratha. Sabratha è una base dell’Isis (fu bombardata dagli americani nel febbraio di un anno fa), attivata per fare business con le tribù locali: questo business sono i traffici. L’operazione Sophia, che ha un nome ridicolo, ma in cui lavorano persone serie, anche se con le mani legate, ha un servizio d’intelligence che ritiene che in quell’area ci sia fra il 30 e il 50 per cento della ricchezza prodotta in Tripolitania oggi. È una zona amministrata, dove si dice ci sia il governo di Al Sarraj, che in realtà è il sindaco di Abu Sittah, cioè controlla quella piccola base navale e poco più. Se il PIL di questa regione è determinato per il 30/50 per cento dai traffici di esseri umani, che chance può avere il ministro Minniti di stipulare accordi validi con il sindaco di Abu Sittah, che per governare ha bisogno di un minimo di consenso da parte di quelle tribù e di quelle milizie che si arricchiscono con il traffico di esseri umani? L’interlocutore più credibile governa la Cirenaica, ma dalla Cirenaica non partono i trafficanti.
Per prendere i trafficanti, dovremmo fare operazioni sulla costa e catturarli. Abbiamo i mezzi per farlo, perché la nostra intelligence, fra droni e forze speciali, sa benissimo dove sono. Tecnicamente è fattibile, ma ci vuole una decisione politica per autorizzare l’operazione. Eppure, questa non è un’azione di guerra, come sostengono alcuni: il diritto internazionale dice che uno stato fallito (e la Libia lo è) non può determinare problemi ad altri stati, e se lo fa, un altro stato ha il diritto di difendersi. Gli americani andavano a bombardare i narcos in Colombia perché la cocaina ammazzava i giovani americani. Io non invito a andare fino in Colombia, invito a presidiare le nostre coste, a dare il segnale che in Italia non entra più chi vuole, tantomeno chi paga i criminali.
L’immagine che viene data ai giovani africani è che i gommoni dei trafficanti sconfiggono flotte potentissime di navi da guerra, che potrebbero risolvere il problema in una settimana. Invece ci troviamo nel paradosso per cui più navi impieghiamo e più gente muore in mare, perché i trafficanti, sapendo che le navi sono nelle acque libiche, mettono in mare anche le zattere, o gommoni con tre litri di carburante: vanno al risparmio. Ovviamente, duecentocinquanta persone su un gommone che potrebbe contenerne settanta, quando finisce il carburante, vanno alla deriva, con il rischio di annegare.
Certamente non possiamo lasciare queste persone in mezzo al mare, ma possiamo raccoglierle nelle acque libiche e portare bambini, donne incinte, feriti, malati in Italia per farsi curare e poi riportarli nel loro paese d’origine. Questi paesi non devono ottenere soldi in maniera indiscriminata, come propone il Migrant Compact europeo di Renzi: sono settant’anni che diamo soldi in Africa e nutriamo, se non sempre regimi, classi dirigenti che certo non investiranno nello sviluppo, perché lo sviluppo porta benessere e il benessere porta richiesta di democrazia, temuta da questi regimi. Noi diciamo che in Eritrea governa un regime dispotico che fa scappare la sua gente? Ebbene, l’UE lo sosterrà nei prossimi tre anni con 312 milioni di euro: quali garanzie abbiamo che il presidente dell’Eritrea userà quei soldi per il benessere del suo popolo?
Le nostre navi devono riportare i fuggitivi su una spiaggia libica, e attuare una stretta sorveglianza. Sapendo che nessuno potrebbe arrivare in Europa, i flussi cesserebbero, e noi avremmo anche il vantaggio di obbligare le Nazioni Unite a intervenire in Libia per riportare questa gente nei loro paesi. Nel 2011, quando ci fu la guerra contro Gheddafi, un folto gruppo di lavoratori asiatici e africani lasciò la Libia ed entrò in Tunisia per fuggire dalla guerra. L’ONU li rimpatriò in poche settimane con un ponte aereo a cui partecipò anche l’Italia. C’è chi dice che adesso non si può fare, perché in Libia c’è la guerra. Ma in Libia si combatteva a Sirte e c’è qualche combattimento a Bengasi, mentre nella zona da cui partono i barconi non si combatte e non si è mai combattuto.