LE DONNE, L' ARTE, LA SCRITTURA
Da dove viene la pittura? Dove va? “Esercizio, studio, ricerca, lavoro di bottega ed esperienza di vita”, scrive, a proposito di Raffaello Sanzio, Bachisio Bandinu nel libro Raffaello Sanzio e Sandro Trotti, pubblicato nella collana “L’arca. Pittura e scrittura” (Spirali). E, scrivendo di Sandro Trotti, cita una sua frase: “Accendi i colori e fai il quadro”.
Cinquecento anni fa, Leonardo da Vinci scriveva che la pittura è la punta della scrittura. Oggi, di questa connessione tra pittura e scrittura Bachisio Bandinu ha discusso a Bologna con il filosofo Carlo Sini, l’artista Sandro Trotti, il direttore della Galleria d’Arte Moderna di Bologna, Gianfranco Maraniello, e con l’Assessora alla Cultura della Provincia di Bologna, Simona Lembi, in occasione della pubblicazione del suo libro, che ha paragonato, con un confronto tanto intrigante quanto impossibile, i pittori Raffaello Sanzio e Sandro Trotti. Confronto da cui emergono più le differenze che le somiglianze, ma soprattutto in ciascun caso la particolarità di due artisti che le stesse Marche, da cui entrambi provengono, non accomunano. Come scrive Bachisio Bandinu, innanzi alle loro opere si “avvia un viaggio, un itinerario di lettura senza la competenza di saperi disciplinari e senza intenzione di critica artistica. Nella relazione con il quadro qualcosa avviene e nel cammino qualcosa diviene: nella gratuità dell’incontro e confidando nell’ospitalità della pittura”. Dall’ascolto, senza più visione, delle loro opere, è emerso un libro non di critica ma di poesia, in cui lo scrittore prosegue la dipintura dei quadri, e il pittore aggiunge, con il colore e la luce, ulteriore poesia alla scrittura. Come non ricordare il greco Simonide, quando scriveva: “La pittura è poesia silente e la poesia è pittura eloquente”?
Con questo libro ci troviamo nel viaggio della parola. Bachisio Bandinu non fa letteratura, punta all’essenziale delle cose. Il suo è un testo di cifrematica, esplora la particolarità di due artisti, giungendo alla loro cifra come valore assoluto. Non c’è, infatti, visione delle opere, ma ascolto, che ci porta non a una critica del visibile ma a una clinica di quel che si ode, quando l’immagine è acustica, quando rilascia un’eco che trae all’intendimento dell’essenziale della vita.
La pittura, scrive Armando Verdiglione, “è l’arte che non immagina, non imita, non trasfigura, non raffigura, non rappresenta”. Frase che sembrerebbe essere adatta all’arte astratta o informale, non all’opera di Sandro Trotti, che dipinge ritratti e nudi di donne, paesaggi urbani e campestri, perfino mucche e cavalli. Eppure, la realtà in queste opere non sta in quel che rappresentano, la loro realtà è nella pittura di Sandro Trotti; realtà linguistica, che sta nello scriversi della lingua della pittura dell’artista. E le città, i cavalli, le splendide donne vengono inventate da questa lingua, per cui alle sue opere Bachisio Bandinu può giustamente riferire la frase con cui Leopardi, altro marchigiano, allude al piacere dei racconti: “Sebbene questi vertano sopra cose sensibili e materiali, è però tutto intellettuale, o appartenente alla immaginazione, e per nulla corporale né spettante ai sensi”.
Il gesto pittorico di Sandro Trotti plasma figure mai esistite prima. La sua pittura non raffigura, inventa. Oltre la frase di Francis Bacon: “io non cerco davvero di dire qualcosa, ma di fare qualcosa”, è proprio nella materia del dire, nella lingua di Trotti che le cose si fanno e si scrivono e giungono alla qualità. Mai in modo facile, perché la sua semplicità è alla punta della difficoltà, non è certo facilità, naturalezza, innatismo.
La pittura di Trotti è la pittura della vita non più facile, naturale, innata. È opera d’arte che diviene vita, non viceversa. Vita di qualità, cifra della pittura, cifra della vita.
Di una vita dedita alla pittura e alla libertà parla il libro di Millo Borghini, Sofonisba. Una vita per la pittura e la libertà (Spirali). La grande e misconosciuta pittrice cremonese del Cinquecento, Sofonisba Anguissola, trova qui la sua biografia, perché qui la sua vita si scrive come uno straordinario itinerario artistico e intellettuale. Una vita che si è dipanata da Cremona, dove è nata, fino a Milano, a Madrid, a Genova, a Palermo, solo per citare le città in cui più a lungo si è stabilita. Una vita costantemente sotto l’egida della pittura, di cui è stata una straordinaria interprete, in particolare nell’arte del ritratto, in cui è risultata addirittura caposcuola e maestra indiscussa anche di grandi pittori spagnoli e fiamminghi. E si tratta di una vita straordinariamente ricca perché non ha evitato nulla che la sua arte esigesse: la lontananza dai familiari, i viaggi perigliosi, la vita di corte, le difficoltà economiche, la vedovanza, prove straordinarie per quei tempi ma anche per i giorni nostri. Senza euforia o disforia, ma sempre sorretta dalla bussola dell’arte. E noi pensiamo alla frase che Freud disse a chi voleva fare un film sulla sua vita: “La mia vita non ha nessun interesse al di fuori della psicanalisi”. Noi leggiamo il caso di Sofonisba non come una prova di soggettività, ma come un paradigma dell’arte e della libertà. E tenere conto che Sofonisba è una donna non vale a porla come eroina e come ispiratrice del riscatto delle donne: è tipico dell’homo sexualis e del femminilismo proporre, difendere e auspicare il riscatto e la liberazione delle donne. Donne come rappresentanti della mancanza e della differenza e dunque bisognose di acquisire la parità. Liberarsi dell’inferiorità, divenire donna: ecco un’espressione della padronanza, che comporta divenire padrona della mancanza, sapere accettarla, assumerla e valorizzarla per divenire padrona della differenza e farne un vessillo o un’insegna.
Padronanza, il modo dell’essere per compensare il non avere. Ma una donna che fa, una donna artista, non ha tempo per cercare la padronanza. Sofonisba non vuole gareggiare con gli uomini, recuperare la mancanza o rappresentare la differenza. Senza rivendicazione o vendetta, senza autonomia e liberazione, offre a ciascuna donna la sua lezione: essenziale non è divenire donna, bensì divenire artista. Artista non come statuto sociale o professionale, ma come statuto intellettuale nella parola. Già con Leonardo da Vinci per l’artista non c’è divisione tra intellettualità e manualità, fra ricerca e quotidianità. Ciascuna cosa non è realistica o spiritualista, ciascuna cosa è intellettuale, anche la mano, la mano dell’artista che fa, che dipinge, che lavora. Ciascuna volta in modo intellettuale.
Anche la libertà è intellettuale, non è personale. Non è del soggetto, dunque le donne non hanno da liberarsi da alcunché; la libertà è ciò su cui si staglia la parola e libera è ciascuna cosa che entra nella parola. Sofonisba non cercava la libertà come fa chi crede che la vita sia una prigione, chi deve sempre fuggire da qualcosa, chi sottomette il piacere al presunto potere dell’Altro. Per lei la libertà non è una cosa facile, ma imprescindibile. È libertà intellettuale, è libertà di ricerca e di impresa. E non a caso abbiamo organizzato l’incontro in occasione della pubblicazione del libro di Millo Borghini (Le donne, l’arte, la scrittura, Provincia di Bologna, 10 maggio 2007) in collaborazione con l’AIDDA (Associazione Imprenditrici e Donne Dirigenti d’Azienda). Apparentemente, Sofonisba non aveva una fabbrica o un negozio, ma come negare che ci fosse impresa nella sua produzione artistica, nella sua attività didattica, nel suo itinerario tra le varie città d’Europa? La sua bottega itinerante era un dispositivo di ricerca, d’insegnamento, un laboratorio. Era la bottega del rinascimento della parola, della sua arte e della sua industria.
Possiamo constatare l’istanza del rinascimento e della sua industria anche nel lavoro di Lorenzo Jurina e nella testimonianza che ne offre nel suo libro Vivere il monumento. Conservazione e novità (Spirali), che ha aperto un dibattito straordinario che prosegue anche su questo numero della rivista. Vivere il monumento è un titolo che pare un ossimoro: il monumento, il palazzo, la dimora storica sembrano qualcosa di già fatto, definito, sono chiamati immobili. Vanno conservati, mantenuti, stabilizzati. Sembrano l’opposto della vita, che è avvenire, trasformazione. Ecco allora la questione: come conservare il monumento senza frenare la trasformazione sociale, economica, architettonica della città? E ancora: come vivere la città senza travolgere, cambiare, ricostruire i monumenti della sua storia?
La scommessa di Lorenzo Jurina, che si occupa di restauro e consolidamento delle strutture storiche, è che l’esigenza dettata dall’uso di un immobile non contrasta la conservazione dell’edificio, semmai la qualifica, perché porta alla manutenzione e dunque alla vita dell’edificio. Per lui è essenziale conservare e valorizzare l’aspetto, la fruibilità del bene culturale, ma anche i materiali con cui è stato costruito e le tecnologie con cui è stato realizzato, quali testimonianze di una storia che ci ha coinvolto. Una storia irripetibile alla quale lui ritiene sia legittimo aggiungere piuttosto che sostituire o eliminare.
Quel che importa è, come scrive, “interrogare l’edificio e i vari elementi dell’edificio, riceverne suggestioni, ascoltare, accompagnare, annotare, percorrere, intuire, inventare”. È un invito all’ascolto che certamente non vale solo per la salvaguardia dei monumenti, ma per la riuscita della ricerca, dell’attività e dell’impresa di ciascuno.