LA LEZIONE DEL CINEMA ITALIANO
Non si finisce mai d’imparare, si potrebbe dire che è l’unica nostra vera professione. Ho realizzato circa venti film – e diversi cortometraggi e documentari – e in questo momento sto lavorando al mio ventunesimo. Sono, come si dice, un uomo impegnato, ma imparare fa parte dei miei impegni, o forse dovrei dire che imparare è il mio mestiere, studio continuamente film, anche mentre realizzo i miei. Lo stesso percorso di realizzazione di un film è per me una lezione, un percorso di apprendimento e di educazione.
Tutto è iniziato grazie alla mia curiosità. Ero stordito dal mondo intorno a me, dalla mia famiglia e, in seguito, dai film che vedevo. Una delle esperienze più formative della mia vita è stata guardare Paisà di Roberto Rossellini, all’età di cinque anni nel 1948, a New York City, su un piccolo televisore con la mia famiglia, mentre spiavo la reazione dei miei genitori e dei miei nonni. Era come rivedere in loro, per la prima volta, il paese che avevano lasciato all’inizio del secolo e l’impatto della guerra su quella gente e su quella terra. Stavo conoscendo la mia famiglia, stavo scoprendo chi ero, da dove venivo. Stavo imparando che esistevano diversi tipi di film e che non dovevano avere tutti l’aspetto e il sapore dei film hollywoodiani. E stavo scoprendo l’impatto che i film potevano avere, le emozioni che poteva suscitare una storia raccontata con immagini e suoni.
All’età di cinque anni, anche se amavo il cinema, non avrei mai pensato che avrei realizzato dei film. Ma tutto cambiò quando entrai alla New York University, nel 1960: quando varcai la soglia delle lezioni di cinema di Haig Manoogian, capii che non potevo più tornare indietro. La famiglia di Haig Manoogian veniva dall’Armenia, quando iniziò a insegnare cinema alla New York University nel 1948, la School of the Artist non esisteva ancora. Oggi accoglie 2700 studenti in 14 diversi programmi e dipartimenti. All’epoca, il dipartimento di cinema si era sviluppato da quello della radio e contava una classe di 32 studenti all’ultimo anno. Prima di tutto Haig insegnò ai suoi studenti a credere in loro stessi, ci trasmise qualcosa di gran lunga più importante dell’erudizione tecnica. In un certo senso accese i nostri cuori, cullandoci e allettandoci, contestando le nostre scelte, affossando la nostra autostima per poi ricostruirla di sana pianta. Haig era il mio critico più severo, ma credeva in me. Quando gli portai la sceneggiatura di quello che sarebbe diventato Mean Streets, mi guardò e mi disse: “Ma chi se ne importa di queste storie?”. Mi diceva sempre e mi sospingeva a dire a me stesso: “A me importa, perché sto morendo dalla voglia di fare questo film, perché ho qualcosa da dire che conosco solo io e perché vedo le cose come nessun altro”. Haig mi diede la capacità di credere in me stesso. È questo il compito di un grande educatore: condividere la sua conoscenza, assolutamente importante, ma insegnarti e ispirarti ad acquisire una natura tua. Haig preparò la strada per molti altri grandi maestri della mia vita, alcuni dei quali ovviamente non avrei mai incontrato e non avrei mai avuto occasione d’incontrare, come David W. Griffith, George Pollock, Orson Welles, e altri che invece conobbi di persona, come John Cassavetes, un grande maestro ma anche un vero amico, un mentore che in un certo senso proseguì la lezione di Haig.
Ma quando si tratta di film italiani, torno sempre a pensare alla mia famiglia, ai film che vedevo in casa e al cinema, e a quello che ho imparato da loro. Per questo, nel documentario che ho realizzato qualche anno fa, il mio viaggio sul cinema italiano, ho deciso di raccontare gli anni della formazione e l’impatto che ebbe su di me il neorealismo italiano attraverso la mia famiglia. Quando iniziai a frequentare l’università, trasferii inconsciamente il fervore e l’impegno che sentivo per la vocazione religiosa nel cinema. E più imparavo qualcosa sul cinema e sulla cultura italiana, più scoprivo i suoi legami con la religione. Nei film italiani il nesso tra religione e cinema era reale e al tempo stesso controverso. Furono per primi i film di Rossellini a spiegarmi questo nesso, questo legame, ma è stato Pier Paolo Pasolini a elevare la profonda compassione di quei film, la loro spiritualità, a un livello completamente nuovo. Insieme ad altri registi, come Ermanno Olmi e Francesco Rosi, Pasolini mi parlò del cinema, mi parlò dell’Italia, ma soprattutto mi parlò della vita.
È impossibile per me esprimere quanto abbia imparato dal cinema italiano, da Visconti a Fellini, da Rossellini a De Sica, da Rosi a Antonioni, dal preziosissimo Bertolucci a tanti altri. I film italiani offrono la più grande espressione collettiva di rinascita che io conosca. Visconti con la sua ricerca storica e operistica, Rossellini con la sua semplicità radicale, Fellini con la sua grazia quasi soprannaturale, Rosi con la sua passione per la giustizia e la sua potenza lirica, Antonioni per il suo coraggio e determinazione e la stupefacente potenza introspettiva e visiva e Pasolini per la sua personalissima grammatica visiva e l’intensità del suo intelletto. Tutte queste voci nel coro ci hanno innalzato, hanno innalzato tutti noi. Per quanto mi riguarda, come siciliano americano, come cineasta, come chi è costantemente alla ricerca di una rivelazione di nuovi modi di vedere e di comprendere, non so come sarei senza questi film, ma già quello che ho imparato guardandoli e ciò che devo ancora imparare da loro è incalcolabile.
Mi chiedono spesso di dare consigli agli studenti e allora ecco il mio consiglio: cercate di trovare il coraggio per esprimere la realtà che vi appartiene, una realtà che solo voi conoscete. Lo scopo unico di tutti noi, a prescindere da tutto, è quello di migliorare, di diventare esseri umani. Può sembrare un’impresa facile, e forse lo è, ma la strada verso la semplicità può anche essere lunga, difficile, rischiosa e spesso ingannevole. Io, a sessantatre anni, sento di averla appena incominciata.