È VERSO GLI STAKEHOLDERS LA PRIMA RESPONSABILITÀ SOCIALE DELLE IMPRESE

Immagine: 
Qualifiche dell'autore: 
presidente di TEC Eurolab, Campogalliano (MO)

Molto spesso si crede che, nei momenti di crisi, tutto ciò che in un’azienda non produce reddito immediato debba essere posto in secondo piano. Pertanto, l’investimento nelle attività che contribuiscono ad aumentare il capitale intellettuale vengono rimandate a tempi migliori, salvo poi constatare che, proprio le aziende che, come TEC Eurolab, hanno fatto di questo investimento una costante negli ultimi anni sono le stesse che riescono a trovare le risposte più efficaci per affrontare le difficoltà…
Trovare risposte immediate ed efficaci non è facile, ma, se ci pensiamo, è una questione di cervello, di capitale intellettuale. Quali sono oggi i due grandi focus su cui ritengono, non a torto, di dover concentrarsi le imprese? Finanza e mercato. Da un lato, devono affrontare il problema della restrizione del credito da parte delle banche, dei mancati pagamenti da parte dei clienti e della diminuzione del fatturato e, dall’altro, devono rilanciare il loro mercato. Ma quali sono le loro armi per fare la battaglia su questi campi? In entrambi i casi, gli uomini: la capacità di acquisire un nuovo mercato, essenzialmente, è quella di un bravo venditore; la disponibilità ad accogliere le trasformazioni, a mantenere vedute di largo respiro, a capire che il mondo non sarà più come prima e che c’è l’esigenza d’innovare i sistemi di produzione, il prodotto e i processi dipende dal capitale intellettuale dell’azienda; ma anche sul piano finanziario, la capacità di negoziazione per ottenere una nuova linea di credito da un istituto, per esempio, è ancora una volta basata sul capitale intellettuale. Ecco perché le aziende da sempre attente al capitale umano sono, tendenzialmente, portate a soffrire meno nei periodi di crisi. 
Quindi, l’Italia che lavora e che si basa sul capitale intellettuale, si scontra come sentiamo sempre più spesso, con una grande restrizione del credito, nonostante qualche intervento da parte della BCE?
Il rapporto banca-impresa è difficile in questi tempi ed è tanto più difficile quanto più l’impresa è piccola. 
E, se la strada per uscire dalla crisi sta nel capitale intellettuale, teniamo presente che la valorizzazione del capitale intellettuale è tanto più difficile quanto più l’azienda è piccola: l’artigiano che ha tre operai, per esempio, faticherà a valorizzare il capitale intellettuale, probabilmente non ne sente nemmeno l’esigenza, nel suo caso comanda la produzione. 
Eppure, anche lui deve fronteggiare la crisi di mercato e quella finanziaria. Molto spesso è una crisi finanziaria che dipende dal fatto che il suo mercato è legato alle grandi imprese, è un subfornitore. E qui occorre aprire una parentesi importante sul rapporto tra le grandi imprese e i piccoli fornitori. La grande impresa rischia di comportarsi nei confronti della piccola peggio dell’istituto di credito, ritardando i pagamenti, usando una posizione di predominanza e, in questo modo, rischiando di distruggere letteralmente un patrimonio di piccolissime imprese che non hanno altri strumenti per combattere, se non il loro lavoro. 
Questo è il momento in cui le grandi imprese devono assolutamente compiere un’azione di patrocinio e non rovesciare sui piccoli fornitori anche il peso finanziario delle loro crisi, come in realtà sta succedendo: basta chiedere a qualsiasi piccolo imprenditore quale sia il tenore delle lettere che riceve da una qualsiasi delle grandi imprese, in questo periodo in particolare: “Si capisca il momento congiunturale tale per cui chiediamo di posticipare i pagamenti di ulteriori sessanta giorni”. Bene. Questo vuol dire che il piccolo imprenditore non solo non avrà le risorse finanziarie che si aspettava, ma, essendo piccolo, non potrà neppure reperirle in banca, anche in considerazione del fatto che, come dicevamo, in questo momento le banche sono meno che mai disposte a finanziare perdite di credito. Andando di questo passo, corriamo il rischio che non una, ma cento, duecento aziende siano costrette a chiudere i battenti sul nostro territorio e questo, per quanto a livello occupazionale abbia lo stesso impatto di quello che potrebbe avere la ristrutturazione di una grande azienda (la perdita di duecento, trecento posti di lavoro), in termini di patrimonio di esperienza, di flessibilità, di “capacità territoriale”, comporta una perdita rilevante che potrebbe avere ripercussioni anche sulla capacità del territorio di sfruttare in pieno una ripresa che tutti ci auguriamo non tardi troppo a manifestarsi.
Mi chiedo perché le grandi imprese non paghino e non facciano fronte ai loro debiti nei confronti delle piccole. 
Questo è un tema etico ed economico importantissimo, che non viene sollevato, anche perché le piccole imprese non possono pensare di fare guerra a quelle che, appena ci sarà un po’ di ripresa, garantiranno nuovo lavoro. 
Le grandi imprese, in questo momento, dovrebbero far valere il loro potere contrattuale con le banche, anziché chiedere alle piccole di fungere da banca. 
Sono d’accordo con la necessità di mettere in atto strategie volte ad aumentare le dimensioni della piccola e piccolissima impresa, ma questo è un processo difficile, che richiede anni, non mesi. Per uscire da una crisi che rischia di falcidiare centinaia di piccole e micro-imprese non possiamo pensare di mettere in campo strategie che daranno i loro frutti fra alcuni anni. Occorre che ciascuno, il governo, le banche, ma anche gli imprenditori e le big companies si assumano, o meglio “onorino”, le proprie responsabilità adesso e che non mettano in difficoltà le piccole e micro-imprese che hanno sempre garantito loro qualità, prezzo, flessibilità.
È anche una questione di “responsabilità d’impresa” o corporate responsibility, per dirla con un termine alla moda.
E questo dovrebbe essere scritto nel bilancio della responsabilità sociale d’impresa…
Proprio perché, molto spesso, si tratta di imprese leader nella responsabilità sociale d’impresa – aziende d’eccellenza che fanno interventi encomiabili sul territorio e al di fuori –, è inaccettabile questo approccio verso i fornitori come se fossero limoni da spremere fino allo stremo, per cui il loro lavoro può essere pagato quando si vuole o addirittura non pagato, se ci si esercita nell’arte di trovare cavilli. Voglio sperare che la ragione di questa schizofrenia – per cui con una mano creano e distribuiscono valori e con l’altra strozzano chi è debole – sia dovuta a una tradizione tutta italiana per cui il responsabile finanziario dell’azienda deve essere disposto ad “asfaltare” chiunque per raggiungere il suo obiettivo, nonostante la direzione dell’azienda coltivi la responsabilità sociale d’impresa con iniziative estremamente lodevoli. 
Allora, bisogna trovare un po’ di equilibrio e ricordare che la prima responsabilità sociale di un’impresa è verso i propri stakeholders: i dipendenti, il territorio in cui opera, i clienti e i fornitori. 
Se, una volta soddisfatta questa, si ha una forza tale da costruire un ospedale in Uganda o a Ravarino, è meraviglioso.