LA PARTITA CHE SI GIOCA IN AFRICA
Sul numero precedente del giornale, lei notava come la crisi stia portando a una trasformazione radicale del lavoro, che rende sempre più indispensabile “Puntare sull’esportazione del capitale intellettuale che non ha la possibilità di esprimersi in Italia” e, “a tale scopo, le nostre istituzioni dovrebbero promuovere accordi con altri paesi, per portare all’estero le nostre aziende e le nostre risorse umane, dando così una mano ai paesi che ne hanno bisogno, ma soprattutto offrendo agli italiani una speranza e un avvenire che magari oggi non intravedono”.
Quali sono le novità che avvertite rispetto a questa esigenza, anche a partire dall’attività di Cramaro Italia sia nelle vostre filiali in Francia, Spagna, Germania, Ungheria e Cina, sia nei paesi in cui avete realizzato importanti lavorazioni come India, Bulgaria e Gran Bretagna?
Gli sviluppi sono quotidiani, ciascun giorno c’è una richiesta importante e ciascun giorno cresce la volontà d’imparare. Anche se purtroppo sono ancora poche le persone che intendono che la ricchezza – sia materiale sia in termini di crescita personale – sta nell’uscire dall’abitudine per capire meglio le esigenze degli altri e trovare i prodotti, i servizi e le competenze da offrire per portare benessere al più grande numero di persone possibile. I paesi sviluppati sono attanagliati dalla pigrizia intellettuale e fisica, frutto della credenza di avere ormai conquistato tutto. Ma quando inaspettatamente si troveranno poveri, non saranno capaci di reagire e allora ci sarà il rischio che la violenza e la pazzia prendano il posto dei valori che sono sempre stati alla base dello sviluppo economico e sociale: l’umiltà, il sacrificio, la ricerca e la formazione. Nel nostro territorio, in particolare nel veronese, c’è un bel fermento, grazie anche alla prevalenza di una cultura del lavoro, attenta al confronto con l’esterno, ma in generale è difficile trovare nei vari paesi persone che non si risparmiano e intendono la ricchezza dell’innovazione e del movimento.
Oggi si parla tanto delle opportunità che l’Africa offre, ma forse occorre un nuovo approccio ai paesi in via di sviluppo. Tra l’altro, considerando che in Italia il mercato dei beni di largo consumo è saturo, creare sviluppo in altri paesi significa anche creare nuovi mercati…
Questa è l’altra faccia del lavoro che abbiamo svolto all’estero, ma non basta: occorre portare esempi di produttività e di organizzazione aziendale, insegnare come produrre. Non è solo una questione di convenienza economica.
Nei paesi dove siamo più presenti, come il Senegal, c’è un fermento enorme, con una voglia di imparare e uno spirito di sacrificio inimmaginabili, anche se il dislivello di esperienza crea non poche difficoltà. Attualmente, la domanda dell’Africa è tale da poter assicurare ricchezze straordinarie, ma è un problema riuscire a coinvolgere lavoratori italiani disposti a trasferirsi là.
Tuttavia, oggi il vero problema dell’Africa è la Cina, che sta drogando il sistema e il mercato: chi come noi vuole stabilire accordi con gli agricoltori africani per impiantare coltivazioni specifiche da cui ottenere biomassa, per esempio, deve fare i conti con la concorrenza cinese, che offre cinque volte di più. Noi imprenditori italiani, che scommettiamo sulla crescita degli africani e che gestiamo il terreno in collaborazione con loro, dobbiamo affrontare una concorrenza che non si basa sul valore del prodotto, ma è una concorrenza di stato, che compra un terreno su cui issare la propria bandiera e fare lavorare i cinesi, rendendolo arido e non lasciando nulla in cambio.
Non ho mai sentito parlare i politici di questo problema, si parla tanto dei prodotti cinesi che invadono i nostri mercati, ma l’urgenza è di affrontare la concorrenza di uno stato che obbliga i suoi cittadini a emigrare nei paesi in cui ha comprato spazi produttivi, che dovrebbero appartenere e essere coltivati dai nativi. I pochi italiani che accettano di trasferirsi in Africa portano cultura, civiltà, tecnologia, progresso; i cinesi, che sono costretti a muoversi per ordine dello stato, fanno terra bruciata. Questo tipo di colonialismo della Cina è assolutamente nuovo nella storia e sta prendendo piede perché, da una parte, i cinesi che vanno in Africa costano meno degli africani – ossia meno di 250 euro al mese – e, dall’altra, la Cina deve creare ogni anno dai quaranta ai cinquanta milioni di posti di lavoro, per rispondere alla massiccia emigrazione dalle campagne in città.
Sono vere e proprie deportazioni…
E questo avviene sia in Africa, dove i cinesi sono già un milione, sia in Sud America. È un fenomeno che coinvolge il Senegal, che conosciamo bene, ma anche altri paesi della costa occidentale di quella orientale. Il procedimento è semplice: i cinesi costruiscono centrali elettriche, ospedali e tutto ciò di cui gli africani hanno bisogno, ma in cambio diventano proprietari di migliaia di ettari di terreno da coltivare a riso o frumento per la Cina. Gli imprenditori italiani ed europei invece sono presenti solo con i tecnici e scelgono la manodopera tra gli africani, a cui insegnano il lavoro e la manutenzione, partendo dal presupposto che centrali elettriche, dighe e impianti sono muri vuoti se non si sanno usare e controllare.
È molto grave che i giornali non diano molto spazio a questo problema, perché se oggi gli economisti pronosticano che l’Africa sarà la nuova fonte di ricchezza e il nuovo mercato da esplorare, occorre che sappiano che, in realtà, è una terra già colonizzata.