PER UNA FUNZIONE ECONOMICA DEGLI EDIFICI STORICI
L’ADSI (Associazione Dimore Storiche Italiane) nasce all’inizio degli anni ottanta per aiutare i proprietari di palazzi storici ad affrontare i costi di manutenzione…
Negli anni ottanta non esistevano ancora incentivi fiscali o altre agevolazioni per i proprietari di immobili storici. La prima legge in materia fu suggerita nel 1982 da Nicolò Pasolini dall’Onda, che prese spunto dagli altri paesi europei. Considerare i costi di manutenzione come oneri deducibili dalle imposte incentiva il privato a conservare l’immobile senza chiedere contributi allo stato che, tra l’altro, non ne avrebbe disponibilità. L’ADSI ha avuto un ruolo essenziale nel fare emergere l’importanza dei proprietari per la manutenzione del patrimonio storico italiano.
Roberto Cecchi, direttore generale del Ministero dei Beni culturali, sottolinea l’esigenza di superare la paralizzante nozione di vincolo. È un passo notevole da parte dell’istituzione più autorevole in materia di tutela dei beni architettonici.
Concordo pienamente con Roberto Cecchi, molto meno con l’interpretazione che è alla base della Carta del restauro, secondo cui tutto è storicizzato, quindi nulla si tocca. Durante il restauro di Corte Isolani a Bologna, per esempio, secondo questo criterio restrittivo non avremmo potuto demolire il muro di tamponamento di un portico quattrocentesco perché storicizzato. Era stato costruito nel 1800, dipinto di bianco e sotto l’intonaco non nascondeva affreschi. Allora, perché non demolirlo per ripristinare l’apertura di un portico molto più antico?
È indispensabile superare la nozione restrittiva di vincolo quando diventa un ostacolo a modifiche che nulla tolgono al nostro patrimonio architettonico. Un compito dell’ADSI, a sostegno dei suoi soci, è quello di far capire che, se non si dà una funzione economica agli immobili storici, è sempre più difficile la loro conservazione. C’è chi, grazie ai proventi di altre attività, riesce a tenere bene la propria dimora, ma è impensabile che il numero di persone provviste di mezzi sia sufficiente a mantenere tutti i palazzi esistenti. Occorre, allora, introdurre innovazioni al loro interno: l’apertura di un abbaino in una falda non principale, per esempio, permette al proprietario di un palazzo di utilizzare una soffitta e di avere così un contributo al suo mantenimento, nonché di controllare eventuali perdite dal tetto e di intervenire prima che provochino macchie sul cassettone del piano sottostante.
Non è necessario che un edificio mantenga per sempre il suo uso originario, se questo porta al suo deterioramento, anzi, è essenziale la sua conversione in senso economico. Per fortuna, molti funzionari delle direzioni regionali e delle soprintendenze territoriali intendono la portata di questa esigenza, anche se, per ora, vale la discrezionalità del singolo. Da trent’anni mi occupo degli immobili di nostra proprietà e posso affermare che i costi di manutenzione e restauro sono aumentati notevolmente, sia per le norme in materia di sicurezza sia per la manodopera, e continueranno ad aumentare, tanto più se consideriamo che il restauro non si può affidare a un’impresa edile qualsiasi.
Occorre che le soprintendenze collaborino alla riconversione degli edifici storici. ll giro in elicottero, di qualche anno fa, a caccia degli “antiestetici” velux installati sui tetti equivaleva a non capire che il velux consente di utilizzare un sottotetto che, altrimenti, rimarrebbe abbandonato. Cum grano salis, si può risolvere il problema.
Non a caso, il tema del convegno La materia del restauro, che si terrà il 16 ottobre prossimo, sarà la conservazione e l’innovazione nel restauro. È essenziale procedere per integrazione nel conservare e nell’innovare, anziché cancellare l’esistente, come si faceva, per esempio, negli anni sessanta o settanta…
In quegli anni, mancando i mezzi e la collaborazione con i comuni, che si disinteressavano della questione, le soprintendenze non controllavano. Probabilmente, molti interventi sono stati eseguiti senza autorizzazione. Negli anni sessanta, i beni architettonici malmessi venivano demoliti per costruire, magari, un campo sportivo. Poi, sono stati considerati un onere pubblico. Oggi, per fortuna, c’è la collaborazione del privato, che porta vantaggi sia al luogo circostante il bene storico sia ai comuni, i cui investimenti non basterebbero nemmeno per la manutenzione ordinaria. La collaborazione tra l’amministrazione pubblica e il privato, nel settore dei beni culturali italiani, è essenziale.
L’innovazione, insieme alla conservazione, consente la fruizione del bene.
Sicuramente. Sappiamo che dai paesi arabi e orientali, in particolar modo, ci sono richieste di trascorrere qualche giorno in un castello o in una villa italiani, condividendo il soggiorno con i proprietari. Anche questi sono modi di reperire fondi per la manutenzione, soprattutto per quegli edifici situati al di fuori dei circuiti turistici. L’apertura al pubblico degli immobili storici potrebbe avvenire sia per convegni o ricevimenti sia per un’accoglienza sul modello del “bed and breakfast”. Anche questa è innovazione.
Si tratta di idee e di invenzione.
L’invenzione è compito del privato che diventa imprenditore, ma occorre che gli enti preposti alla tutela non ostacolino le idee, se l’innovazione riguarda l’interno dell’edificio e, soprattutto, se all’interno non c’è qualcosa che debba essere conservato come tale. Altrimenti, si rischia l’abbandono degli immobili. Già da molti anni, ad esempio, il centro storico di Cosenza crolla a pezzi perché nessuno ci vive più. Ma anche sul nostro Appennino si trovano ville, torri e cappelle che, essendo in disuso da anni, degradano progressivamente fino a diventare ruderi. Recuperarli avrebbe costi spaventosi.
D’altronde, molto spesso, le dimensioni di questi edifici sono veramente notevoli, quindi, anche il solo costo di manutenzione ordinaria è estremamente elevato.