LA CIFRA DELLA MODA

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amministratore di Maria Rosa Confezioni S.r.l., presidente di Confartigianato Moda, sezione Emilia Romagna, e Giovani di Lapam Federimpresa, provincia di Modena

In che modo vengono percepiti oggi i marchi italiani sui vari mercati internazionali e che cosa possono fare le aziende del settore abbigliamento per aumentare il valore dei loro brand?

Sicuramente i marchi made in Italy, indipendentemente dal fatto che il prodotto sia fabbricato o meno in Italia, hanno un’incidenza notevole nel mondo, ma in un momento come quello attuale, in cui tutti i settori hanno subito una contrazione in seguito alla congiuntura internazionale, penso che le imprese debbano adoperarsi per fare emergere quegli aspetti che sono intrinseci al made in Italy, anche attraverso una più incisiva politica del brand, che, nel settore moda, vuol dire prima di tutto ricerca e formazione che contribuiscano a rendere consapevoli le identità stilistiche che il marchio deve veicolare sul mercato, quel connubio di elementi in cui la buona manifattura è solo un aspetto.

Ciascun marchio ha in sé codici di identità stilistica che vengono riconosciuti dal cliente. Lavorare su questi codici vuol dire potenziare il proprio marchio, far sì che si affermi e che abbia un riscontro sempre maggiore sul mercato. Questa è un’operazione che, soprattutto le aziende piccole e micro hanno fatto molto poco. 

Nella provincia di Modena e in Emilia Romagna in genere, c’è una tradizione di aziende che toccano punte massime di efficienza in tutti gli aspetti del ciclo produttivo, ma hanno parecchi deficit dal punto di vista commerciale, quindi fanno ottimi prodotti, forniscono ottimi servizi, ma poi hanno difficoltà nella vendita. E soprattutto hanno sempre l’ansia di saturare i mercati anche quando i mercati perdono ricettività in seguito a una caduta dei consumi come nell’attuale crisi internazionale. Sicuramente lavorare secondo l’orientamento al mercato e alla distribuzione, anziché alla produzione, comporta uno sforzo ingente, però nel medio e lungo periodo questa politica dà i suoi frutti: oltre che all’affermazione e al rafforzamento del brand, giova dal punto di vista economico, perché la filiera si accorcia ancora di più e, di conseguenza, le aziende possono ottenere quei feedback diretti che provengono dal mercato e che sono determinanti per la definizione dei propri obiettivi, ma che è difficile percepire quando la filiera è troppo lunga.

Capire quali sono i contenuti che si vogliono veicolare attraverso il marchio, qual è la propria cifra stilistica e lavorare per farla emergere o, se necessario, per modificarla è essenziale per riuscire ad affermarsi sul mercato. Occorre fare lo sforzo di capire cosa percepisce il pubblico del proprio prodotto e cosa l’azienda deve fare per accentuarlo. Purtroppo, soprattutto nelle piccole aziende, nei momenti di crisi si affrontano i problemi urgenti smettendo di pensare a lungo termine e credendo che basti lavorare di più. Ritengo che invece in questi casi occorra pensare a ciò che si deve fare per lavorare meglio. 

Maria Rosa Confezioni, che in quarant’anni di esperienza ha eseguito lavorazioni di alta qualità sartoriale per grandi firme, è un esempio di azienda che sta trasformando il suo business, soprattutto in seguito all’acquisizione in licenza dei brand Snob Inside e Upper Class. A chi si rivolgono in particolare le vostre collezioni?

La donna Snob Inside e Upper Class esprime un connubio di romanticismo e d’intrinseca eleganza senza tempo, caratterizzato da una ricercata allure bon-ton, dal giorno fino alla sera; è una donna cosmopolita, affascinata dai tessuti di pregio. Upper Class in particolare è la linea della Snob Inside dove ritroviamo alcuni precisi codici come il colore, i ricchi particolari, la mano artigianale di un lusso mai ostentato. Lavorare sul codice stilistico vuol dire lavorare anche sull’età e sull’identificazione di una forma, di un colore o di uno stile. Ma riuscire a farlo emergere e a rafforzarlo non è scontato, richiede un percorso di formazione, che consente anche alle piccole aziende di acquisire un nuovo approccio nel fare impresa. Oggi anche se un’impresa come la nostra lavora nella subfornitura, deve guardare al di là dei propri confini, che non sono la provincia o il comune di residenza, e presidiare i mercati esteri sia per cogliere opportunità che il mercato interno non riesce più a garantire sia per uscire dal proprio guscio e comunicare ciò che è in grado di fare.

Lei ritiene che occorrerebbe valorizzare il patrimonio della subfornitura, l’arte, il mestiere e tutto ciò che si impara solo con anni e anni di esperienza e che non si può improvvisare?

La subfornitura è fatta di competenze tecnico-professionali che costituiscono un bacino di know-how preziosissimo, ma che non ha molto tempo dinanzi, considerando che sta venendo a mancare il ricambio generazionale, per diverse ragioni. Il grande rischio è che in questi momenti di difficoltà economico-finanziarie si vada a perdere quel che è stato costruito in tanti anni ed è irriproducibile.

Purtroppo, però, sono quasi assenti politiche di valorizzazione e strategie a medio e lungo termine, e questo è un handicap enorme perché un aggregato economico che smette di pensare a lungo termine non investe più sulle future generazioni, mentre soltanto una costante alimentazione permette di avere una rigenerazione dell’innovazione i cui benefici si potranno trarre nei prossimi anni.