C'ERA UN'ALTERNATIVA ALLA LINEA DI GORBACIOV?

Qualifiche dell'autore: 
docente di Storia della Russia all'Università di Bologna

Per ragioni di spazio, dovrò lasciare inevase alcune questioni sollevate dall’intervento di Carlo Monaco, che ho trovato molto discutibile. Ad esempio, non è certo dal 1989 che comincia la presa di distanza critica dell’allora partito comunista italiano dall’esperienza storica e dalla politica corrente sovietica. La reazione del gruppo dirigente del partito italiano al “rapporto segreto” di Khrushchev e al processo di “destalinizzazione” fu essenzialmente quella di un senso di liberazione, anche se accompagnato dallo sconcerto e dall’amarezza per il mito che cadeva: un sentimento forte soprattutto nella base popolare del partito. Inoltre, la repressione della “primavera di Praga” (nel 1968) allargò in modo decisivo gli atteggiamenti critici nei confronti dell’URSS e della sua storia nell’allora PCI, differenziando notevolmente le opinioni in proposito presenti tra gli iscritti. Queste cose Monaco le sa, naturalmente, meglio di me: e per questo ritengo che una tale consapevolezza avrebbe potuto indurlo al tentativo di non semplificare una vicenda, quella della lunga trasformazione del partito comunista italiano, in realtà assai complessa.
In ogni caso, vorrei rassicurare il pubblico che non cercherò di trascinarlo in beghe tra ex-comunisti e post-comunisti. Vorrei dire soltanto, tuttavia, che se nel mondo, dal 1917 a oggi, milioni di persone si sono dette comuniste, non è stato certamente a causa di un loro presunto entusiasmo per il sistema stalinista e sovietico dei campi di sterminio, dei crimini di massa e dell’oppressione politica di grandi masse di persone. Penso che la storia del movimento comunista internazionale non sia riducibile alla storia degli orrori e dei crimini attuati in URSS e in altri paesi del “socialismo reale”. Ritengo che, oltre a queste aree di sovrapposizione dell’azione dei regimi comunisti con quella del nazionalsocialismo, la storia del comunismo mondiale abbia conosciuto eventi e momenti di natura del tutto diversa, che, al contrario, il fascismo e il nazionalsocialismo non hanno conosciuto. In breve, nel corso del secolo passato si è diventati comunisti in diversi paesi perché la rivoluzione bolscevica è stata una protesta contro la guerra; perché l’industrializzazione sovietica è sembrata una risposta alla grande crisi economica degli anni ’30; per via della vittoria di Stalingrado sul nazismo e sul fascismo. Si è stati comunisti, infine, o si è simpatizzato con il comunismo, perché dopo il 1953 l’Unione Sovietica e numerosi paesi e partiti a essa collegati appoggiavano nel mondo grandi lotte di liberazione anticoloniali.
Veniamo, dunque, al libro di Jakovlev. Direi che dovremmo riconoscere in esso un documento storico di grande importanza. L’autore è stato membro della sezione Propaganda del Comitato Centrale, dopo il 1964; è stato ambasciatore in Canada – questo è stato il momento della sua “disgrazia” politica: anche se, come risulta dalla sua testimonianza, anche da quella posizione egli riuscì a dare il suo contributo alla preparazione della politica di Gorbaciov nel suo paese e a livello internazionale. In seguito egli è stato membro della segreteria del partito comunista dell’Unione Sovietica e del suo ufficio politico. Si tratta di un personaggio che ha avuto un grande peso nella storia del suo paese e nella storia del mondo negli ultimi trent’anni. Nel libro che qui presentiamo scorrono eventi, uomini, memorie di un grande processo della storia contemporanea, la perestrojka, che ha poi aperto la strada al collasso del comunismo sovietico, dell’Unione Sovietica e del movimento comunista internazionale: o almeno, di quello che era rimasto del movimento comunista internazionale dopo le vicende dei tardi anni Sessanta e degli anni Settanta.
È un libro complesso, su due registri: un’operazione non facile da parte dell’Autore. Primo registro: Jakovlev cerca di giustificare il proprio operato, soprattutto all’epoca della perestrojka, sulla base della situazione di allora e delle proprie convinzioni di allora, un’operazione legittima, naturalmente, e anche storicamente scrupolosa. Da un lato, egli cerca di giustificare se stesso come comunista “riformista”; dall’altro, però cerca anche di guardare alle proprie azioni di quel tempo da un punto di vista più ampio e storicamente successivo, quello di chi vive nel periodo posteriore alla fine del comunismo, sulla base dell’esito definitivo della vicenda del potere sovietico e delle persuasioni finali (ormai non più legate alla tradizione politica sovietica) alle quali, nel frattempo, lo stesso Jakovlev è approdato. Le conclusioni a cui giunge l’Autore, come i lettori si possono rendere conto, sono lontane da quelle di un comunista riformista dell’epoca della perestrojka. È con scrupolo storicista (ma Jakovlev non si fece notare, a suo tempo, con uno scritto del 1972 “in difesa dello storicismo”?) che l’autore sottopone il proprio passato di uomo politico a un doppio esame. Egli si domanda se i passi da lui intrapresi già dal tempo di Krushchev e di Brezhnev, ma soprattutto nel periodo in cui Gorbaciov lo richiama a Mosca, nel 1983, fossero giustificati da una posizione socialista democratica, quale poteva essere intesa allora; e, in secondo luogo, se quei suoi intenti di allora risultino ancora giustificati, ora che non è più questione di agire all’interno di quel tipo di sistema. Questa operazione, lo svolgere la propria riflessione su questo doppio registro, non è un’operazione facile, intellettualmente e moralmente: come sto per dire in qualche dettaglio, ritengo che essa non sia del tutto riuscita al nostro Autore e che questa sia una constatazione significativa.
Per esempio, Jakovlev si chiede se in occasione del 28° congresso, l’ultimo congresso del partito comunista dell’Unione Sovietica del luglio 1990, il gruppo gorbacioviano ed egli stesso non abbiano sottovalutato (assieme a una parte notevole dei cosiddetti democratici russi di allora, che ancora erano all’interno del partito), l’esigenza di stabilire un rapporto positivo con il centro conservatore del Pcus, impegnandosi in una difficile distinzione tra apparato sovietico, burocrati, padroni del valore e quello che, invece, Jakovlev chiama adesso “il conservatorismo del senso comune” (non quello ideologicamente motivato, bensì il conservatorismo che si oppone al cambiamento accelerato in quanto tale, in quanto quest’ultimo non sarebbe il metodo migliore di soluzione dei problemi umani). Tuttavia, allora egli fu per una posizione intransigente di lotta indiscriminata contro questa palude centrista. È significativo, mi pare, che più di dieci anni dopo egli si faccia scrupolo di chiedersi se, in qualche modo, là non vi sarebbe stata una possibilità di scongiurare esiti che ancora oggi egli considera negativi: il dissolvimento dell’Unione Sovietica e l’isolamento internazionale dello stato successore, la Federazione Russa.
In seguito Jakovlev si differenziò dalla frazione gorbacioviana dei comunisti riformisti russi (dal febbraio al luglio del ’90). Ci fu un conflitto in questo periodo tra gli stessi riformatori. Gorbaciov era ispirato alla linea di riconciliazione delle riforme democratiche e liberiste con il socialismo tradizionale, con alcuni ambienti conservatori dell’establishment sovietico, e va al compromesso con essi: agli inizi del 1991 consente alla formazione del governo Pavlov (dal quale usciranno tanti golpisti nell’agosto successivo) e suscita così il dissenso dei propri antichi collaboratori e consiglieri. Per parte sua, Jakovlev capisce che quella riconciliazione non è possibile (così ci dice nel suo libro) e acquista un punto di vista generale diverso che in passato. Si tratta ormai, secondo Jakovlev (siamo nella prima metà del ‘91), di superare i residui scrupoli e pregiudizi socialisti, di dare battaglia aperta all’apparato conservatore del Pcus. Mi pare che questo sia un nucleo di riflessioni molto rilevante ma non ancora compiutamente risolto da Jakovlev. Egli cambia spesso prospettiva, oscilla tra il porsi nelle vesti del comunista riformista di allora e l’uomo politico liberaldemocratico di oggi: che, evidentemente, non può che cercare di giustificare anche queste sue nuove convinzioni.
Jakovlev svolge, talvolta, una critica energica di Gorbaciov, al quale rimprovera di aver cercato, velleitariamente, di far fare riforme (ad una data così avanzata, come il ’91) a un partito che ormai di riforme non ne voleva più e che, anzi, regrediva rapidamente dal punto di vista politico a opinioni pre-perestrojka. Di qui l’accusa di ristrettezza politica e intellettuale a Gorbaciov, di debolezza di carattere: forse, pare di capire, addirittura con il dubbio che Gorbaciov sia stato complice del tentato golpe dell’agosto ‘91. È, però, una critica complessivamente equilibrata quella che l’Autore rivolge al suo antico compagno di fede, contro i suoi detrattori democratici odierni, coloro che adesso criticano retrospettivamente Gorbaciov, spesso a torto. Jakovlev, di nuovo mettendosi nelle vesti del socialista riformatore di allora, chiede: ma allora, dove eravate? Egli si prende anche la responsabilità di dire che c’era una seconda alternativa nella linea scelta da Gorbaciov, alla fine del ‘90: invece di cercare un’intesa, un accordo con la parte più moderata e più retrograda del Pcus, farsi eleggere Presidente dal popolo con voto diretto invece che con voto indiretto; e inoltre, abbandonare il partito e formarne un altro, o più d’uno. Quindi, abbandonare il Pcus e gettarsi con decisione dalla parte dell’opinione più innovatrice; e per questa via, difendere… che cosa? Secondo me, anche se Jakovlev non lo dice apertamente, pur sempre una prospettiva che ancora aveva o poteva avere un’ispirazione riconducibile agli ideali del socialismo e a qualche elemento del sistema economico, sociale e multietnico sovietico.
Diversamente, non vedo lo scopo di continuare a tormentarsi, dopo tanti anni, sulle scelte fatte allora, dal punto di vista retrospettivo di un contesto interno e internazionale così profondamente mutato.