LE PICCOLE E MEDIE IMPRESE: VERO MOTORE DEL MADE IN ITALY
La cultura imprenditoriale del nostro paese differisce notevolmente, da un punto di vista filosofico e organizzativo, da quella delle nazioni concorrenti: tale diversità si traduce a livello pratico nella realizzazione di prodotti altamente identificabili e in un approccio progettuale a prima vista poco sistematico, ma in realtà estremamente creativo. Questa cultura è alla base del made in Italy, che a nostro avviso non deve essere declassato a banale caratteristica geografica: esso può essere meglio definito come la trasposizione, all’interno della produzione industriale, dei noti concetti di alta qualità, elevato valore aggiunto, continua innovazione tecnologica, uniti al senso estetico e alla bellezza. La genialità tecnica e il gusto sono le parole chiave che guidano le nostre realtà.
Ma come può essere sostenuto un approccio di questo tipo? Essenzialmente attraverso alcuni fattori imprescindibili: amore per la propria azienda, orgoglio dell’italianità, elevatissima flessibilità nel pensare e nell’agire. È chiaro che queste caratteristiche possono essere coltivate e fatte crescere solo in una struttura organizzativa di piccola o media dimensione, poiché andrebbero irrimediabilmente disperse in realtà dove la grandezza è sì sinonimo di potenza, ma anche di estrema lentezza nell’azione. Ecco perché le piccole e medie imprese risultano fondamentali per lo sviluppo del made in Italy, anzi, rappresentano il suo principale veicolo di diffusione: perché nelle nostre aziende, piccole ma non così “provinciali” come si potrebbe pensare di primo acchito, l’imprenditore è il fondatore e lo sviluppatore della propria creatura, un capitano capace di guidarla con passione e senso di responsabilità. In poche parole, non è un manager asettico dalle “scarpe a punta”, ma un portatore di sana mentalità imprenditoriale, capace di calarsi con disinvoltura in ruoli differenti, orgoglioso della propria terra. Nelle nostre aziende, la flessibilità è portata al massimo livello, sia in campo propriamente tecnico che commerciale.
La SIR ne è un chiaro esempio: tra i maggiori system integrator a livello internazionale, può essere definita come una vera e propria bottega rinascimentale di meccatronica, una sartoria tecnologica in grado di progettare e costruire applicazioni robotizzate su misura, in base alle specifiche esigenze del cliente. La particolarità di questa azienda consiste nel realizzare automazioni che rappresentano veri e propri prototipi, in tutti i campi di applicazione della robotica e nei più svariati comparti industriali. La ricerca della soluzione più innovativa ed elegante è l’attività principale di SIR: per districarsi in un mondo dove lo standard non esiste, occorre possedere l’istinto del problem solver unito alla capacità di astrazione e di trasferimento tecnologico tra settori a prima vista incompatibili. Una flessibilità portata al massimo livello, che a volte non viene nemmeno compresa appieno, per lo meno all’estero, dove i concorrenti tendono a specializzarsi in una sola tipologia di applicazioni. Erroneamente scambiata per sterile tuttologia, tale creatività si sposa all’orgoglio territoriale (tanto che su tutte le nostre realizzazioni campeggia lo slogan “Cuore italiano”) e alla dedizione incondizionata del proprio fondatore, Luciano Passoni, ingegnere. SIR rappresenta un esempio lampante, anche in questi tempi bui, dell’importanza delle piccole e medie imprese nell’ambito del tessuto tecnologico italiano: eppure, da più parti si continua a discutere di come questo paese sia condannato dalla sua struttura industriale troppo frammentata, senza però rendersi conto che è grazie alla flessibilità di tale organizzazione che siamo ancora in grado di reggerci in piedi.
Il nostro è un paese basato sulla produzione di beni reali in aziende che, per la loro dimensione, tendono a non essere troppo legate al mondo della grande finanza. Certamente qualcosa andrà cambiato per favorire l’internazionalizzazione e per garantire una presenza più incisiva sul mercato globale, ma il nostro modello resta vincente. Crisi a parte, la causa del declino economico va semmai ricercata in altri motivi: scarsa disponibilità di aiuti statali e di strumenti finanziari, costo elevato dell’energia e delle materie prime e, in ultimo, la propensione di alcune zone industriali a realizzare pezzi e non prodotti. Il made in Italy andrebbe rilanciato proprio in questo senso, convertendo le realtà dedite alla produzione di componenti ripetitivi e a basso contenuto tecnologico in strutture impegnate nella realizzazione di un vero prodotto inequivocabilmente “italiano”. Non è un’operazione impossibile: tante piccole aziende hanno fatto questo passo, raggiungendo notorietà e successo al di fuori dei confini nazionali. La riuscita di SIR, per esempio, si fonda sulla valorizzazione dei propri prodotti attraverso un’attenta attività progettuale, commerciale e organizzativa. È un’operazione di fondamentale importanza, che ha lo scopo di distinguere la nostra realtà dalla massa produttiva che offre soluzioni standardizzate e poco flessibili, con scarse possibilità di personalizzazione. In breve, siamo su un piano diametralmente opposto rispetto ad Henry Ford e alle sue Model T “di qualunque colore purché siano nere”: SIR e le aziende similari devono cogliere questo momento come un’opportunità irrinunciabile per mirare a una sempre maggiore differenziazione dalla grande industria. Per tale motivo, stiamo puntando a un miglioramento qualitativo del prodotto, al fine di aumentarne il valore aggiunto, avviando al contempo una costante opera di penetrazione in nuovi comparti dove la robotica rappresenta ancora una frontiera tecnologica: energie rinnovabili, settori aerospaziale e nucleare, industria di fabbricazione dei sanitari, logistica avanzata.
Ma il prodotto di qualità tipico del made in Italy non basta: il problema è valorizzarlo, convincere il cliente che una Ferrari ha un costo maggiore di un’utilitaria perché offre di più. La vera sfida è proprio questa: fare compiere al possibile investitore o acquirente un salto culturale, in modo che possa comprendere l’importanza del valore aggiunto, dell’innovazione tecnologica, ma soprattutto della flessibilità, della capacità di realizzare un abito su misura. Non è facile, ma si può fare: il segreto sta, per dirla con un contraddittorio gioco di parole, nella “standardizzazione della personalizzazione”. Come si può ottenere? Semplicemente tramite l’ingegneria: progettando in modo semplice e razionale, in una parola ingegnerizzando ciascuna singola soluzione ad hoc, affinché appaia (e sia) non solamente un’improvvisazione geniale, ma un vero prodotto nel senso globale del termine. Per fare questo è necessario rivedere la struttura organizzativa e il servizio, ma soprattutto occorre migliorare qualitativamente quella che è la nostra più grande risorsa, il vero propellente della piccola-media impresa: l’uomo, inteso come dirigente o maestranza, poiché tutti devono sentirsi parte del miglioramento e del processo di valorizzazione.
Parallelamente, occorre portare a un nuovo livello quello che solitamente è il punto debole della piccola dimensione: il settore commerciale. Per rimanere competitivi sul mercato globale, occorre visibilità e forza distributiva: per questo SIR sta potenziando la rete italiana, ma soprattutto quella estera, in zone geografiche e settori tradizionalmente non battuti. Si tratta di operazioni complesse, che ciascuno di noi tende spesso ad affrontare secondo la propria metodologia, diciamo in modo quasi individualistico. Perché? Perché la piccola-media impresa si sente sola, anzi, a tutti gli effetti è sola: mancano appoggi e sostegni, sia da un punto di vista politico che finanziario. Se da un lato sarebbe auspicabile un ritorno a una finanza reale, trasparente e oculata, dall’altro le banche dovrebbero divenire reali strumenti di sviluppo, capaci di finanziare le aziende che possano vantare progetti seri, concreti e innovativi. È risaputo quanto la piccola-media impresa, che solitamente non può vantare una liquidità e un patrimonio di grandi dimensioni, dipenda dal meccanismo del credito bancario. Eppure, a tutt’oggi, malgrado se ne parli da anni, non ci sono segnali incoraggianti che facciano sperare in un maggiore coinvolgimento degli istituti bancari nel tessuto produttivo reale. Occorrerebbero nuovi strumenti e fonti di finanziamento, ma soprattutto il coraggio di percorrere, assieme agli imprenditori seri e concreti, la strada che porta alla costituzione di nuove realtà industriali o al varo di progetti di rilancio e rivalutazione di quelle esistenti. In breve, le banche dovrebbero tornare a svolgere il compito per cui sono nate, come accadeva negli anni sessanta.
D’altro canto, anche lo stato dovrebbe impegnarsi ad arginare il parziale smantellamento del tessuto produttivo, creando incentivi a chi investe nel territorio nazionale evitando la delocalizzazione. Ma tutto questo non basta ancora: per non disperdere al vento il patrimonio industriale custodito e coltivato dalla piccola-media impresa e quella cultura generalizzata e diffusa del “saper fare”, che tanto benessere ha donato alla nostra terra, è necessario che la politica sappia creare un ambiente fertile, sia per la nascita di nuove realtà, sia per lo sviluppo delle esistenti. Con terreno fertile intendiamo grandi opere, infrastrutture idonee, sgravi fiscali, snellimento dei meccanismi burocratici, sovvenzioni statali dove la dimensione aziendale rappresenti un criterio discriminante. Non è più accettabile uno stato che elargisce sovvenzioni a pioggia o, ancor peggio, che carica sulle spalle del cittadino le spese atte a garantire la sopravvivenza di quelle poche grandi industrie rimaste, mentre i piccoli imprenditori, vera rappresentanza del nostro tessuto produttivo, raccolgono solo le briciole. Mancano pure incentivi per favorire la nascita e la diffusione di strumenti atti a creare l’aggregazione delle piccole-medie imprese in consorzi o in realtà di dimensioni maggiori, al fine di poter contare su un accresciuto potere commerciale e distributivo, unito a più ampie possibilità di ricerca e sviluppo. Questa aggregazione dovrà avvenire senza scalfire l’identità e l’indipendenza di ciascuna singola azienda, che proprio sulla libertà di scelta e azione basa le sue caratteristiche di flessibilità.
E, infine, ancora una volta, l’elemento fondamentale: l’uomo. Sembra banale, ma nel mondo delle imprese, la chiave di volta è sempre il fattore umano. Il successo di tutti noi si basa su capitani coraggiosi che hanno saputo rischiare e inventare. Coraggio e genialità, cuore e intelletto: queste caratteristiche umane non dovranno essere disperse. In definitiva, occorre garantire a questa nazione un adeguato ricambio generazionale, creando un percorso formativo di qualità ben più elevata dell’attuale, che sia in grado di consegnarci i manager di domani. Se, come tutti speriamo, al termine di questo periodo economicamente buio, freddo e drammatico, prenderà piede un nuovo Rinascimento dell’industria, saranno proprio questi uomini a essere chiamati a ricoprire il ruolo di maestri di bottega.