IL NOSTRO CAPITALE È LA CULTURA
Non stupitevi se incomincerò con un esempio molto semplice, che prende spunto dalla celebrazione del centenario di Darwin. È risaputo che Darwin sviluppò la sua idea dell’evoluzione naturale tenendo molto conto, fra l’altro, dell’evoluzione artificiale. Questo tipo di evoluzione è stata applicata dagli allevatori sin dai tempi antichi quando, per la necessità di avere mucche che producessero molto latte, facevano riprodurre un animale con questa caratteristica. Di fatto, si trattava di una selezione sessuale per la sopravvivenza del latte, non per quella delle mucche. Fino a cinquant’anni fa questo procedimento non creava grandi complicazioni, quando invece ha assunto un andamento globalizzato – nel senso che oggi questo tipo di selezione artificiale è meno praticata da parte dell’allevatore sul suo terreno e nel suo territorio, nel mondo ambiente in cui vive l’animale, ma si effettua in vitro, in laboratorio, per cui si può fare la stessa operazione a Hong Kong come a San Francisco, a Roma o a Parigi – il risultato è stato disastroso, in quanto gli animali vengono selezionati in un non mondo e in un non ambiente che impedisce loro di sviluppare tutte quelle difese naturali che li rendono idonei non solo a resistere in maniera efficace agli ambienti concreti, ma anche alle modificazioni che l’ambiente naturale sempre comporta. Risulta chiaro che, inseriti nel mondo reale, questi che possiamo chiamare “animali robot” sono molto più fragili degli altri, si ammalano più facilmente, non resistono alle variazioni climatiche ambientali, perché è venuto meno il terreno, l’humus, il territorio, la tradizione e, in qualche modo, anche la storia.
A questo punto, veniamo a quanto c’interessa questa sera: cosa deve fare l’Italia e cosa dobbiamo fare noi nel mondo globalizzato? Qual è l’invenzione italiana? Qual è il marchio italiano? Credo che il capitale che potremmo avere in Italia e che abbiamo senz’altro, se non continuiamo a sperperarlo, è un capitale costituito fondamentalmente dalla cultura, come ha affermato anche Sergio Dalla Val: il capitale è costituito dalla cultura, intesa non solo in modo folkloristico. Rispetto profondamente questo tipo di cultura e ne apprezzo le grandi virtù, credo che sia evidente l’interesse di salvaguardare alcune tradizioni, attraverso i costumi, i cibi, il territorio e credo che, tra l’altro, sarebbe fondamentale farlo maggiormente. Nonostante questo, ritengo che la cultura così intesa acquisti un sapore turistico e, quindi, grossomodo globalizzato, pertanto ne riconosco le virtù ma non credo sia questo il fulcro. La vera questione è che noi veniamo da una tradizione culturale e storica estremamente complessa e ricca, che ha avuto la capacità di assorbire culture e tradizioni differenti, ritraducendole e costituendole nella propria genialità nazionale, e perdere questo vorrebbe dire diventare insignificanti. Insignificanti perché non abbiamo altro, non abbiamo grandi capacità imprenditoriali e non abbiamo materie prime paragonabili a quelle di altri paesi, però abbiamo una grande cultura. Certamente avevamo e forse abbiamo ancora una grande cultura, per la quale i nostri ragazzi, quando vanno all’estero – pur venendo da università molto diroccate e affaticate, molto povere e con biblioteche mal ridotte –, sono più bravi degli altri. Non lo sto dicendo per amore, ma perché è ciò che constato spesso. Mi sono chiesto diverse volte il motivo: la risposta sta nel fatto che sanno più cose, perché hanno avuto una scuola più ricca, perché hanno una grande tradizione alle spalle, perché questa tradizione la leggono sui muri delle loro città, finché riescono ancora a leggerla, perché queste tradizioni le vivono e perché, in breve, conoscono la nostra storia, che è imparagonabile con quella di qualunque altro popolo dell’occidente. Nel quattrocento, quando nella Borgogna era ancora pieno medioevo, nel nostro paese era già rinascimento. Nel cinquecento alla corte di Elisabetta parlavano italiano e ne erano onorati, anche Spinoza parlava italiano.
Detto questo, ho l’impressione che abbiamo salvaguardato male, soprattutto negli ultimi tempi, questo capitale, che non può essere limitato alla tradizione locale. Dobbiamo salvaguardare la grande cultura italiana, che non è locale ma universale, per quanto possa esserlo una cultura occidentale. È la cultura di Dante Alighieri, di Petrarca, di Boccaccio, di Machiavelli e della loro lingua, senza la quale oggi non ci sarebbe nessuna letteratura romanza. Chi ricorda queste cose ai nostri ragazzi? Chi gliele fa vivere? Chi gliele dà? Chi li nutre di questa cultura?
Sono tre le grandi tappe che possiamo individuare nella storia della nostra penisola: la prima ha il suo fulcro nella Chiesa che, per lunghi secoli, ha detenuto la cultura. Le chiese erano enciclopedie viventi e la gente vi si recava per imparare la storia sacra e la storia profana. Nei conventi e nelle grandi abbazie si copiavano testi antichi che costituivano la base di quella che sarebbe diventata la futura cultura e sapienza, sulle quali si esercita il dominio temporale, oltre che spirituale, della Chiesa stessa.
La tappa successiva è quella che arriva con il rinascimento, con la libera iniziativa di cui le botteghe artigianali sono il gancio trainante. Con il rinascimento incominciano la ricchezza, il lusso, l’amor profano, il gusto di vivere su questa terra, non contro la religione cristiana ma in quella che possiamo chiamare una trasformazione dell’interpretazione della religione cristiana.
La terza tappa è nel passaggio da una produzione artigianale a una industriale, da una moneta locale a una universale, il cui luogo è l’impresa, è l’industria, fino alla globalizzazione. Ma l’impresa, l’industria non è riuscita ad assorbire la cultura, così come la cultura non è riuscita ad assorbire l’impresa. Questo è il grande problema intellettuale che abbiamo oggi, perché dal 1800 in avanti l’alta cultura ha prevalentemente combattuto contro l’impresa, la quale, a sua volta, si è appropriata di un potere senza legittimarlo con la cultura. L’ha legittimato unicamente con la tecnica e con il profitto, forze indiscutibili ma, come tali, violente, fatto che è sotto gli occhi di tutto il mondo che ormai ne è devastato.
Dunque, il problema vero è riuscire a riagganciare tecnica, scienza ed economia a quel quadro generale che definiamo normalmente con la parola cultura. Non che le prime tre non lo siano, ma sono cultura che si è separata dal fondamento degli animali nati in quel territorio e non in un’officina genetica. Dobbiamo, quindi, riportare qui la produzione industriale. Dobbiamo fare un’operazione in un certo senso inversa a quella che normalmente si è indotti a fare per ragioni squisitamente economiche, che, nonostante siano molto comprensibili, tendono a un prodotto che vada a camminare per tutto il mondo e per tutti i mercati del mondo: dobbiamo pensare a un prodotto che fa venire nel nostro paese coloro che lo desiderano, anziché trasferirci all’estero. I nostri intellettuali, che cambiano stato ogni sei mesi, sono sguatteri considerati come un prodotto, si potrebbe dire che sono considerati alla stregua di buoni pagliacci. Ho visto miei colleghi sforzarsi di far ridere gli americani, ai quali piace essere sempre molto spiritosi, tanto che, per esempio, il loro Presidente deve sempre dire una battuta e, a costo di non dormire la notte, deve pensare a una battuta per la mattina seguente, solo per non correre il rischio di essere considerato non abbastanza politicamente corretto.
Noi abbiamo la cultura, pertanto ritengo che gli altri debbano venire da noi e non viceversa. Ma per fare questo bisogna avere l’orgoglio della nostra tradizione, essere orgogliosi delle nostre capacità, della nostra scuola e non avere alcuna tendenza all’imitazione pedissequa di altri modelli, che sono nati da noi e dopo di noi. Questo è un rovesciamento che non so se riusciremo a fare, perché tutti gli indizi sono contrari. Quello che sta succedendo negli ultimi vent’anni, indipendentemente da chi è al governo o da chi è il ministro dell’istruzione, è una sorta di tendenza malsana basata su un timore reverenziale, su un’auto-denigrazione e auto-mortificazione, che portano all’incapacità di avere quell’autorevolezza che nasce dalla consapevolezza. Noi siamo il paese del mondo che traduce più di qualunque altro, ma non per vendere libri in Italia, ma per gli stranieri. I miei colleghi universitari ungheresi, per esempio, studiano l’italiano perché così, conoscendolo, sono in grado di leggere libri di autori inglesi, francesi e spagnoli, grazie alle innumerevoli nostre traduzioni. Ritengo molto giusto che noi traduciamo autori stranieri, però mi chiedo il motivo per il quale non appoggiamo la traduzione dei nostri libri nelle altre lingue. Quando all’estero vogliono tradurre un nostro libro, anche non di alta cultura, ci viene chiesto chi paga la traduzione. Diversamente da noi, i tedeschi, i francesi e gli inglesi pagano le traduzioni dei loro autori. Il punto non è la mancanza di soldi, anche perché non si parla di cifre esorbitanti; si tratta di una specie di sciovinismo alla rovescia, una sorta di cinismo e di indifferenza.
Questi sono piccoli esempi di come noi mandiamo alla rovina, lasciandola cadere nel nulla, una tradizione grandissima senza cui ho l’impressione che noi saremmo piccoli imitatori di quello che altri sanno fare molto meglio di noi e con mezzi molto migliori dei nostri. Non utilizziamo quello che, invece, abbiamo come tradizione, come storia, come potenzialità e anche come intelligenza, perché ritengo che i nostri ragazzi siano molto intelligenti, salvo che non sviluppino un codice che sostituisca il cervello. Prima che si crei questa mutazione darwiniana, credo che siamo ancora fra le popolazioni più vivaci e più brillanti del globo. Allora la cultura e l’impresa devono cominciare a intendersi. È difficile, naturalmente, perché l’impresa ha molti problemi, fa fatica a sopravvivere e noi le stiamo dicendo che è importante ricordarsi di avere avuto Orazio; però qualcuno lo capisce e comprende che un animale che nasce qui, fecondato dalla sua terra, dai suoi poeti, dalla sua cultura, dalla sua scienza e dalla sua lingua, sarà inventivo anche sul piano culturale, non per spostamento diretto ma per una sorta di riflesso, sarà inventivo nel modo giusto, perché avrà orrore di fare quelle cose che invece oggi facciamo.