IL RESTAURO: DALLA TUTELA DEL BENE ALLA TUTELA DEL PAESAGGIO
Fin da quando ho incominciato a occuparmi di restauro mi sono chiesto se avesse senso la conservazione del nostro patrimonio e se il modo corretto fosse quello di tramandarne, oltre l’immagine, l’interezza degli elementi costitutivi oggetto della tutela.
Rispondendo affermativamente a questa domanda, si pone il problema di quali strumenti e metodi utilizzare per raggiungere questo obiettivo. Pur concordando sul valore del nostro patrimonio, abbiamo difficoltà a comprendere come possa diventare attuale, ossia come possa fare parte della nostra progettualità. Non sono così scontati né la sua conservazione né il fatto che esso rappresenti un valore.
Tanto per capirci, mi pare interessante ricordare un esempio che considero da sempre emblematico, verificatosi a Milano alla fine dell’Ottocento, quando si decise di demolire il Castello Sforzesco per costituire un unico cannocchiale visivo da Piazza del Duomo al Sempione. Fortunatamente non se ne fece di nulla. Ma quest’episodio è la dimostrazione più efficace per comprendere quanto si siano modificati nell’arco di un breve periodo i modi di riflettere sull’eredità del passato.
Se un esercizio di selezione così semplificato poteva applicarsi su un bene come il Castello Sforzesco, per la cosiddetta edilizia minore il problema dell’elisione quasi non si poneva. Per cui, interi tessuti edilizi sono stati distrutti, anche se con molto minor danno rispetto ad altri paesi europei. Tra le due guerre, la teoria del diradamento, come operazione selettiva tesa a privilegiare soprattutto aspetti di natura sanitaria, ha autorizzato vere e proprie demolizioni del contesto storico stratificato in prevalenza medievale.
In Francia, gli appelli di Victor Hugo ricordavano ai connazionali che le nuove idee sulla pianificazione urbanistica stavano compiendo danni maggiori di quanto non avesse fatto la rivoluzione.
Dunque, è un’acquisizione relativamente recente quella per cui noi oggi abbiamo atteggiamenti condivisi, sebbene in modo non uniforme, sul valore del patrimonio storico. Agli inizi degli anni ottanta del secolo scorso, era ancora prassi diffusa la demolizione delle stratificazioni per il presunto recupero dell’impianto originale.
In questo clima molte chiesette barocche, diventate tali lavorando sull’architettura precedente, sono state letteralmente scorticate per ripristinare la presunta integrità dei valori primordiali, considerando tali soprattutto quelli medievali.
Oggi, generalmente, non si compiono più azioni del genere; abbiamo modificato radicalmente il nostro atteggiamento nei confronti del passato, al punto da giungere al dispositivo di legge del 2004, il Codice dei beni culturali e del paesaggio, che fa un’unica cosa delle due vecchie leggi del 1939 (operazione che era già stata fatta col Testo Unico, la 490/99), la 1089 per la tutela dei monumenti e la 1497 per la protezione delle bellezze naturali, attraendo verso la tutela del patrimonio la nozione di paesaggio.
Secondo il Codice, il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dal paesaggio, quindi, mette insieme due ambiti che, sotto un profilo legislativo ma anche da quello culturale, sono rimasti separati per oltre mezzo secolo, mentre è chiaro che rappresentano un’unità inscindibile.
Il paesaggio non è il luogo della naturalità. La definizione più convincente di paesaggio è quella secondo cui si tratta di un insieme di natura e storia; cioè, il luogo fisico dove la natura si lega alla storia, ossia al nostro fare, a ciò che nel tempo abbiamo prodotto e quindi ai monumenti, ai centri storici, ai palazzi, alle chiese.
La nozione di paesaggio, per certi versi, è molto più ampia di quella di ambiente. E non si tratta di una novità. Apparteneva al nostro modo d’intendere le cose già dagli anni trenta, nonostante le due leggi del ‘39, di cui si è detto, abbiano portato ad una divisione artificiosa tra bellezze naturali e monumenti.
Anche se c’erano tutte le premesse per una visione analoga a quella attuale. Basta un esempio. L’articolo 21 della legge 1089/39 stabiliva la possibilità di imporre un “vincolo di rispetto”; ciò significava che per tutelare al meglio un monumento occorreva disciplinare che cosa dovesse accadergli intorno. Già così, si capiva che il bene culturale non è una monade, ma vive del contesto in cui si trova; la tutela non riguarda solo l’oggetto ma l’intero contesto stratificato. Culturalmente, con questo dispositivo di legge avevamo individuato il bandolo della matassa.
L’unitarietà della tutela è stata codificata più tardi dalla Commissione Franceschini nel 1967. Questa Commissione parlamentare ha considerato molto seriamente la questione dei beni culturali in Italia e ha pubblicato tre volumi che contengono dati fondanti. Purtroppo, gli esiti della Commissione non diventarono mai legge, se si esclude la Carta del restauro del 1972; eppure, certe parole d’ordine come quella di considerare il patrimonio culturale una Testimonianza materiale avente valore di civiltà indica una strada chiarissima per l’attività di tutela che non riguarda l’immagine dell’oggetto, ma il bene nella sua integrità materica.
A metà dell’Ottocento, la facciata di Notre Dame è stata rifatta quasi completamente, secondo un principio che va sotto il nome di restauro stilistico. Salvo qualche eccezione, noi abbiamo percorso un’altra strada rispetto a quella. Se ancora oggi ci è data la possibilità di studiare Santa Maria del Fiore, San Marco a Venezia o il Duomo di Modena, è perché siamo quasi sempre intervenuti con criteri molto diversi.
Apparentemente, quest’idea di tutela può apparire paralizzante, poiché ogni cosa è storia e quindi oggetto di conservazione. È bene precisare che questa è la linea tendenziale verso cui muoversi, nella consapevolezza che non si può prescindere dalla necessità di adeguare, riparare, intervenire soprattutto quando si parla di architettura, che rimane comunque un qualcosa che fa parte integrante del vivere e dunque destinata a seguirne l’evoluzione.
Per un’efficace azione di tutela oramai è necessario superare la nozione di vincolo; quel che conta è un’attenta conoscenza del territorio, su cui lavorare per scelte condivise. Oggi, è obbligatoria per legge la stesura dei piani paesistici regionali. Se questo strumento potesse essere attuato nella sua interezza, avremmo la possibilità di decidere le trasformazioni del territorio in forma consapevole, evitando che accada che la tutela si risolva nell’inseguire il caso per caso.