IL MONUMENTO IN VIAGGIO
Alcuni relatori dell’incontro In materia di restauro, di cui
qui pubblichiamo gli interventi, hanno discusso il libro precedente di Roberto
Cecchi I beni culturali. Testimonianza materiale di civiltà (Spirali), il 13
luglio 2007, in questa stessa bellissima sala con le opere del Guercino. Da quel primo libro è
sorto un nuovo modo d’intendere il restauro, che ha avviato un dibattito in
varie città d’Italia: oltre a Modena, Firenze, Venezia, Milano, Roma, Napoli, e
molte altre. Niccolò Machiavelli diceva: “Di cosa nasce cosa, e il tempo la
governa”. È proprio ciò che sta accadendo in questo caso, perché dal dibattito
non solo è nato un altro libro, Il restauro (Spirali), che ha dato l’occasione
per l’incontro di questa sera e che dà un’eco importantissima dello stato
dell’arte in materia di restauro nel nostro paese, ma sono nate anche una nuova
teoria e una nuova pratica del restauro.
Dai due libri di Roberto Cecchi emerge un approccio
differente al bene culturale come testimonianza materiale di civiltà, soprattutto come documento, non come semplice
monumento. Come scrive l’autore, riprendendo la relazione della Commissione
Franceschini: “È la testimonianza il vero oggetto della tutela e ciò che la
storia ci ha concretamente lasciato: è ciò che possiamo vedere e toccare”. In
altre parole, è l’analisi del dato materiale del monumento, il suo palinsesto
materico, che offre la possibilità d’interrogare la materia della storia. Il
bene culturale quindi è come un testo, di cui va mantenuta e conservata la
materia, attraverso un restauro filologico che non si basi sul principio del
rifacimento a tutti i costi, della ricostruzione del bene com’era e dov’era
prima, ma sulla materia del bene che deve continuare a vivere come documento di
civiltà. I commenti e le interpolazioni tipici del restauro come restitutio in
pristinum invece intervengono quando “sparisce l’interesse per la testimonianza
documentale”, “per far posto al desiderio di riunificare, di rimettere a nuovo,
di riparare i danni prodotti dal tempo con qualcosa che evochi il passato, pur
non potendo essere più quello che era. Nella palese e tacita consapevolezza che
quella dimensione storica è andata persa irrimediabilmente”.
Il criterio di cui è promotore Roberto Cecchi è quello
dell’intervento in direzione della qualità, con i suoi corollari: infatti, mai
potremmo giungere alla qualità per via di riunificazione, toglieremmo la
particolarità della fabbrica, che sta nel suo elemento materiale.
L’intervento che lascia vivere la materia segue il criterio
della restituzione in qualità, perché lascia che la materia testimoni della
cultura e degli uomini che hanno vissuto in un periodo, senza incorrere nella
passione della “storiografia corrente, che tende a una periodizzazione
esasperata, come se si potesse far coincidere ogni girar di secolo con un
cambiamento di sensibilità e di creatività”.
Ma il criterio della qualità per Roberto Cecchi ha un altro
corollario, che potremmo definire rinascimentale: quello per cui le cose
procedono per integrazione, non per contrapposizione o per alternativa
esclusiva. Solo ammettendo che le cose procedono dall’apertura, per
integrazione, allora ciascuno s’interessa a ciascun aspetto del progetto,
anziché limitarsi alle presunte competenze, rischiando di perdere di vista
“l’insieme delle problematiche e delle soluzioni”.
Ma è la stessa cosa che accade nella medicina: se la cura
del monumento, come la cura delle persone, non procede per integrazione, c’è il
pericolo che, come recita il famoso detto: “Nonostante l’operazione sia
perfettamente riuscita, il paziente è deceduto”. Allora, se la salute dei beni
culturali è istanza di qualità, istanza di valore, che avviene in una restituzione
di ciò che non è mai stato, il compito per ciascuno di noi è il processo di
valorizzazione dei beni culturali, valorizzazione stessa della memoria, che non
è fatta di ricordi, ma è arte e invenzione che si scrivono e si qualificano. Il
restauro, sembra suggerirci Roberto Cecchi, è esso stesso arte e invenzione,
anziché arte secondaria.
Se consideriamo il bene culturale come testo, il paragone
con la traduzione è inevitabile. Anche la traduzione viene considerata un’arte
secondaria rispetto alla scrittura. Eppure, tradurre un libro è un’esperienza
che ci fa intendere come non ci sia scrittura senza traduzione. E in ciascun
caso si tratta di restituzione in qualità.
La materia della parola, la materia di un romanzo è
irriducibile, proprio come la materia di un dipinto o di una scultura o di un
fabbricato, tanto nella scrittura quanto nella traduzione, tanto nella pittura
quanto nel restauro di un dipinto. E l’intervento deve tenere conto di questa
resistenza intoglibile, con le sue leggi, che sono le stesse leggi della
parola. Il monumento come testo ha la sua lingua. La sua valorizzazione esige
quindi un processo di scrittura. Il testo del monumento si restituisce con la
lettura, ma la lettura è alla punta della scrittura, non viceversa. La
scrittura della memoria – come scrittura dell’arte e dell’invenzione
costitutive del testo del monumento – giunge alla lettura che per ciascuno
inaugura la missione. E la missione trae la parola a divenire capitale. Allora
non importa più il riferimento al libro come testo sacro rispetto a cui ogni
traduzione risulterebbe inadeguata. Così come non importa più il riferimento al
monumento com’era e dov’era prima. Il monumento è in viaggio. Importa come il
monumento si rivolga al valore, come divenga capitale, lungo un itinerario in
cui la trasformazione è incessante e da cui la traduzione, la trasmissione e la
trasposizione sono imprescindibili. E il restauro come restituzione in qualità
non si fa mettendoci del proprio né rispettando il monumento, ma disponendosi
alla suggestione, alla persuasione e all’influenza della parola.