LA RESTITUZIONE NELL’IMPRESA
Dal 1984, anno della sua fondazione a opera dell’ingegnere Luciano Passoni, la SIR ne ha fatta di strada e, non a caso, oggi è considerata la capitale della robotica italiana. Ferrari, Fiat, ACC, Brembo, Ducati, OMR, Berco e Kone sono solo alcuni dei clienti per i quali SIR ha studiato e prodotto sistemi robotizzati su misura in tutto il mondo. Dal 1997, con il suo ingresso in azienda, al talento e all’esperienza del fondatore si è affiancato il suo contributo. Con quali novità?
La prima novità da un punto di vista tecnico è stata una conseguenza delle nostre differenti specializzazioni: mio padre viene da una formazione prettamente meccanica, io da una più orientata all’elettronica e all’informatica. L’introduzione dei sistemi di visione o della programmazione virtuale dei robot deriva da alcuni nuovi filoni di ricerca orientati a un background più informatico. L’innovazione ha sempre avuto un ruolo fondamentale all’interno di SIR, sin dalle origini: realizzando prototipi e applicazioni ad hoc ritagliate sulla specifica esigenza del cliente, la nostra azienda può essere considerata come un grande studio di ingegneria, un vero e proprio laboratorio tecnologico in cui tutti i principali attori, in un modo o nell’altro, danno il proprio contributo alla ricerca.
Anche la collaborazione con l’università è intervenuta in seguito al suo impegno?
L’innovazione e l’entusiasmo nell’affrontare nuove sfide sono i pilastri su cui SIR ha costruito la propria riuscita. Se dal 2002 abbiamo sviluppato un rapporto permanente con la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Modena e Reggio Emilia, questo è dovuto principalmente alla naturale propensione di mio padre per l’alta tecnologia: basti pensare che già nel 1996 il Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica aveva certificato SIR come “laboratorio tecnologico”, iscrivendola al relativo albo.
Ma nel 2004, presso la Casa dei robot, com’è stata definita la nuova sede, è nata un’iniziativa unica in Italia: quella che tuttora ospita in azienda un laboratorio del Dipartimento di Ingegneria meccanica, in uno scambio fruttuoso, di cui lei tiene le fila. Quali sono state e quali sono le difficoltà?
La collaborazione con le università oggi sta divenendo un modus operandi abbastanza diffuso in molte aziende. Ciò che rimane raro, però, è il carattere permanente di questo scambio, che di solito è a progetto e quindi caratterizzato da un termine temporale. SIR si pone invece su un piano diverso, ospitando costantemente diversi collaboratori provenienti dall’università: questo ci permette di sviluppare iniziative a più ampio respiro, che investono l’intero iter progettuale e realizzativo. Nella programmazione virtuale come nella visione, la collaborazione a lungo termine e la continua interazione fra SIR e l’università consentono di migliorare e affinare anno dopo anno i nostri prodotti. Il contributo universitario è sicuramente molto importante perché offre la possibilità di risolvere problemi teorici complessi, apportando nuove idee nel mondo dell’industria: la chiave sta nella capacità di trasferire le idee teoriche in un contesto puramente pratico.
C’è una rotazione?
Alcuni collaboratori di alto livello, dottorandi o professori, rappresentano figure permanenti e seguono l’intero percorso di un progetto di ricerca. I laureandi che si occupano invece di singole parti di un’implementazione ruotano con un intervallo temporale che varia generalmente da sei mesi a un anno. Abbiamo avviato anche collaborazioni a tempo pieno della durata da uno a tre anni, con possibilità di assunzione al termine del contratto: tutto ciò ci permette di disporre di menti giovani e fresche, creando nuove figure professionali in campi profondamente interdisciplinari, quali la meccatronica o la robotica.
All’inizio è stato arduo tenere le fila di questo connubio: l’approccio universitario è differente, per tempistiche e priorità, da quello del mondo del lavoro. Occorre però ricordare che generalmente s’incontrano collaboratori preparati e volenterosi, entusiasti del proprio ruolo e del proprio apporto tecnico, soprattutto quando un progetto scaturito da un’idea comune si tramuta in un impianto funzionante presso un cliente. Il vero segreto sta nel sapere gestire correttamente i rapporti con il mondo formativo: se in molti casi i progetti non vengono portati a termine, lo si deve a un approccio scorretto da parte delle imprese, che abbandonano i ricercatori già dopo le prime settimane, lamentandosi dei tempi lunghi e del punto di vista a volte troppo teorico. Siamo noi imprenditori che dobbiamo orientarli alla realizzazione pratica, seguendoli costantemente e affidando loro traguardi intermedi da raggiungere con le corrette tempistiche: è il solo modo per ottenere risultati, altrimenti si rischia di affossare il progetto a due terzi del lavoro, sprecando inutilmente tempo, denaro e risorse umane. In poche parole, occorre saper infondere entusiasmo e dinamismo, affinché questi collaboratori si sentano parte di un vero e proprio team.
Ma quello che lei auspica è un imprenditore con un approccio intellettuale all’impresa, è un brainworker, che non si lamenta perché qualcosa non avviene, ma trova il modo perché avvenga, trova il modo perché ci sia restituzione alla civiltà, scrittura delle cose che si fanno. A proposito di scrittura, abbiamo apprezzato i suoi articoli sia sul nostro giornale sia sul sito della Ducati, scritti con una ricchezza linguistica che non è frequente nei laureati in materie scientifiche…
Mi piace molto scrivere o leggere: ultimamente ho abbandonato un po’ la narrativa a favore dei saggi di scienza o di storia. La lettura apre la strade a molte idee, altre giungono viaggiando, sia per turismo che per lavoro, e non solo in Italia: il 20 per cento dei 2250 impianti prodotti da SIR sono installati all’estero. Le soluzioni migliori però arrivano inaspettate, nei momenti di tranquillità, durante i fine settimana, quando mi dedico ai miei hobby preferiti: lo sci, il motociclismo, il volo e l’alpinismo.
Sono tutti hobby che ha incominciato a praticare presto?
Le passioni per lo sci e la moto derivano da mio padre, che mi ha sempre portato con sé sin da bambino. L’alpinismo è una conseguenza dello sci: chi si reca in montagna d’inverno, prima o poi finisce per andarci anche d’estate, vista la bellezza dell’ambiente. Il volo invece è l’unico hobby che mi ha visto giocare d’anticipo rispetto a mio padre, seppure di pochi mesi: ora però è lui quello maggiormente appassionato, che non vorrebbe più scendere dall’aereo.
Per diversi anni, uno dei temi principali dei dibattiti che dovevano promuovere la cultura d’impresa era il cosiddetto “passaggio generazionale”. In che modo, invece, nel vostro caso, non si tratta tanto di un passaggio – che presupporrebbe un salto –, ma di un vero e proprio itinerario, in cui il padre e il figlio non sono ruoli ma statuti, che danno il loro apporto alla riuscita?
Malgrado padre e figlio appartengano a generazioni diverse, credo che nelle aziende entrambe le figure debbano fare uno sforzo affinché le differenze costituiscano un valore aggiunto, anziché divenire motivo di conflitto. Superato il traguardo della laurea, si crede erroneamente di essere giunti a un punto di arrivo, ma la realtà lavorativa è ben diversa: occorre farsi carico di una buona dose di umiltà e comprendere che senza l’esperienza non si approda da nessuna parte. Durante il mio primo giorno di lavoro, mio padre mi ha consegnato un cacciavite e mi ha portato in officina, dove ho passato un anno a fare il cablatore e altri quattro a programmare gli impianti. Nel suo ufficio, c’è un biglietto di auguri consegnatogli da un cliente che recita: “Il vero ingegnere è quello che da giovane ha piantato dei chiodi”. Vero.
Quindi lei fa un appello ai giovani in questo senso?
Certamente, non possono davvero pensare di uscire dall’università e di essere pronti per dirigere un’azienda o per svolgere il ruolo di manager. La professionalità si acquisisce solo lavorando: in questo sono assolutamente d’accordo con mio padre, che mi ha insegnato come l’umiltà sia il requisito fondamentale per costruire qualcosa.
Il vostro è un bellissimo esempio in cui ciascuno dà il suo contributo nel dispositivo. Ma forse lei ha potuto e può dare il suo contributo anche perché ha trovato nel fondatore un interlocutore, che ha posto le condizioni perché lei potesse darlo. E creare le condizioni non significa facilitare un compito, ma mettere la persona alla prova e darle gli strumenti perché possa sviluppare i propri talenti…
I propri uomini non devono mai essere abbandonati, occorre invece sensibilizzarli e responsabilizzarli, permettendo loro di commettere anche degli errori: questo atteggiamento viene applicato a ciascun collaboratore della SIR. Il fatto che in questo periodo di sofferenza economica si sia deciso di proteggere a tutti i costi l’occupazione non dipende solo da una scelta prettamente economica, ovvero la difficoltà di reperimento delle maestranze nel momento in cui il mercato riprenderà vigore, ma anche da un motivo culturale: per un vero imprenditore come mio padre, l’azienda è una propria creatura, nata dalla passione e dall’entusiasmo. Ma le realtà aziendali sono costituite principalmente da uomini: per questo non vogliamo perdere lungo il cammino nessun componente di quella che viene considerata come una grande famiglia. Gli obiettivi e il modo di porsi della sana imprenditoria devono essere fatti propri dalle nuove generazioni, che saranno chiamate ad agevolare ulteriormente il coinvolgimento, in termini di approccio al lavoro, grazie a una maggiore elasticità che non implica la perdita di autorità.
D’altra parte, autorità viene dal latino augeo, auctor, colui che dà aumento. Per cui il fondatore non ha bisogno di rappresentare l’autorità con la severità. Inoltre, chi prende iniziativa, chi dà aumento nel senso che incomincia qualcosa, può anche non essere il fondatore dell’azienda…
L’autorità non va messa in discussione, ma è importante sottolineare come, grazie all’impegno e alla fantasia tecnica, si possa a propria volta divenire autori originali. È necessario che all’interno dell’azienda ai collaboratori venga data l’opportunità d’intraprendere il loro cammino, proponendo idee, invenzioni e intuizioni.
È un compito molto difficile, in cui si trova anche lei, e non solo chi ha fondato l’azienda…
Certo, lo scopo è essere elastici e innovativi, creando nuove soluzioni che contribuiscano a reinventare una tradizione, quella della meccatronica, per cui Modena è giustamente famosa. Essere propositivi non è qualcosa che occorre solo nell’aspetto tecnico, ma anche negli altri settori dell’attività aziendale, come il marketing o la comunicazione pubblicitaria. Anche questa è una forma di restituzione: ampliare lo sguardo su un mondo che ha i suoi canoni consolidati, uscendo dagli schemi prefissati.
La pubblicità si lascia guardare perché è bella, non perché è settoriale. L’immagine comunica perché è evocativa non perché è descrittiva. Nella pubblicità della pasta nessuno ne descriverebbe gli ingredienti.
Allo stesso modo, non si dovrebbe mostrare una telecamera a bordo di un robot per pubblicizzare un sistema di visione. SIR fa affidamento a un’eclissi di sole per simboleggiare l’affidabilità di uno strumento capace di funzionare in tutte le condizioni come la vista umana, oppure utilizza un rover lunare che osserva la superficie del pianeta, per richiamare alla mente l’idea della flessibilità e dell’adattabilità. In nessuna di queste immagini viene raffigurato un impianto: in fondo vendiamo soluzioni, e la potenza di un’idea è quasi più importante e accattivante della sua rappresentazione pratica.