LA CRISI E LA RIUSCITA OLTRE LA PAURA
In un panorama di convegni che non dicono quasi nulla, sono rimasto positivamente soddisfatto da questo forum (La riuscita. Quale economia e quale finanza per le imprese dell’Emilia Romagna e del pianeta, Borsa Merci di Modena, 27 marzo 2009) in cui persone completamente differenti fra loro, ruotando attorno a un unico argomento, hanno portato testimonianze che contribuiscono all’arricchimento di ciascuno di noi. Sono un professore di economia di formazione ragionieristica, non un esperto della psiche, ma in questo forum abbiamo capito che l’uomo non è importante solo perché ha le mani (le mani possono fare cose che abbiamo visto fare dai robot mostrati da Davide Passoni della SIR), ma anche perché ha il cervello, e che il cervello è una cosa complessa. Dopo questo forum, possiamo avanzare una diagnosi della crisi in chiave psicologica, ed è probabilmente il fatto più nuovo rispetto alle crisi degli anni trenta e settanta. Questa è stata una crisi di fiducia, una crisi di panico, una crisi di paura, che ha accelerato spaventosamente sia la crisi della finanza sia quella dell’economia reale.
Tutto è partito con una piccola banca inglese, la Northern Rock, che aveva difficoltà nel rimborsare i depositanti: la voce si è diffusa, i depositanti sono corsi in massa, abbiamo visto le code agli sportelli anche in televisione, e il fallimento della banca è stato evitato unicamente dall’intervento dello Stato. Se ci fossero stati meno emotività e meno panico, forse ci sarebbe stato il tempo per rimediare, senza giungere così presto alla catastrofe.
Un altro esempio della componente psicologica che ha accompagnato questa crisi è riscontrabile nella caduta delle vendite di beni e servizi in tutto il mondo: la crisi dei consumi è avvenuta in dicembre, ossia soltanto qualche giorno dopo la crisi di Lehman Brothers. L’errore di far fallire quella banca ha scatenato il panico a livello mondiale e i consumi sono crollati in una settimana.
Allora capiamo perché all’ultima convention di Mediolanum, la società holding di un importante gruppo bancario e assicurativo che presiedo, che ha recentemente radunato cinquemila promotori finanziari, il motto era “Io non ho paura” e non si è parlato di tassi d’interesse o di selezione del portafoglio. E capiamo anche perché nelle riunioni con i dipendenti, che si fanno il lunedì per trasmettere informazioni o per aumentare il coinvolgimento nel programma aziendale, non si parla di materiale tecnico, specialistico, ma si scommette sul cervello. Paolo Moscatti notava quanto sono importanti il sogno e il desiderio nell’impresa. È proprio così: il desiderio e il sogno apparentemente non hanno niente a che fare con l’economia e con la finanza, ma sono determinanti per influenzare il comportamento delle persone.
Sicuramente fra le cause della crisi finanziaria c’è stata tutta una serie di errori tecnici, ma in gran parte la stessa crisi è stata provocata dai comportamenti di non più di duecento persone nel mondo che, per motivazioni proprie, collegate ai propri traguardi personali – rimunerazioni mostruose ancorate a obiettivi di scadenza brevissima, che non tenevano conto di ciò che avrebbe comportato l’indomani – hanno portato a trasformare le banche in casinò, con tutte le conseguenze del caso. Sarebbe interessantissimo rileggere questi fatti in modo ordinato e coordinato per capire l’importanza della psiche nell’economia e nella finanza.
Anche il comportamento dei governi ha avuto in gran parte contenuti psicologici. Quando Berlusconi ha detto: “Italiani, non preoccupatevi, non lasceremo fallire le banche”, in realtà, non ha fatto niente di concreto, non ha speso un euro, non ha emanato un provvedimento, ma ha lanciato un messaggio per evitare il panico, come d’altronde avevano già fatto Sarkozy e Merkel prima di lui. È vero che poi qualcuno ci ha messo anche i soldi, ma l’importanza della fiducia, della serenità, del coinvolgimento sono stati determinanti nella produzione della crisi e lo saranno altrettanto per uscirne. Credo che sia importante sapere queste cose, per capire meglio tutto ciò che ci forniscono i mezzi di comunicazione di massa che sembrano destinati a peggiorare l’umanità anziché a migliorarne le sorti.
Un altro aspetto fondamentale della situazione è la sua universalità, la sua eccezionalità, perché la globalizzazione, piaccia o no, ha un peso. I sintomi della crisi della globalizzazione c’erano già due o tre anni fa, quando si cominciavano a capire i suoi effetti collaterali negativi, dati dal fatto che il mercato globale procede senza le regole che invece riescono a guidare un mercato singolo. Credo che non ci sia nessuna possibilità di frenare il processo di globalizzazione, che tra l’altro è una delle grandi conquiste dei nostri tempi, ma oggi occorrono comportamenti che consentano per lo meno di limitarne i danni. Cosa difficilissima, se si considera che JP Morgan, per esempio, ha un bilancio pari al 10-15 per cento di quello degli Stati Uniti. Oggi realtà di questa portata vengono spezzettate perché non sfuggano più al controllo. UBS, grande colosso mondiale delle finanze, è stata divisa in tre perché era diventata ingestibile. I costi da gigantismo sono mostruosi. Un imprenditore abituato ai parametri di una media azienda, nonostante le sue competenze, non riuscirebbe a capire i problemi di una multinazionale. Da questo punto di vista, il fatto che noi abbiamo un sistema economico imperniato sulle piccole e medie imprese è una grande fortuna. Con la crisi, un certo numero di tali imprese uscirà dal mercato. È un prezzo da pagare, ma probabilmente esse sarebbero uscite comunque un po’ più tardi. Quelle che rimarranno avranno un futuro di medio periodo molto interessante.
Tutto questo gira attorno al tema dei rapporti tra Stato e mercato. Il ritorno straordinario dello Stato nelle banche, nel settore automobilistico, in quello degli elettrodomestici e in altri non è la fine del capitalismo. Non c’è stato il tempo per riflettere se il capitalismo andasse bene o male. Quando i governi di tre paesi, in meno di ventiquattro ore, hanno deciso di erogare miliardi di euro per salvare una banca, non hanno avuto tempo di riflettere politicamente. Le loro idee politiche non sono cambiate in quello spazio temporale. Quella decisione è stata presa sotto la spinta della necessità, in termini pragmatici.
Lo stesso Bush, innanzi alla domanda se fosse giusto che lo Stato con i soldi dei contribuenti rimediasse agli errori di banchieri folli o di fabbricanti di automobili incapaci, troncò la discussione dicendo che non era giusto, ma disse anche che se lo Stato non fosse intervenuto, la fattura che i contribuenti avrebbero dovuto pagare sarebbe stata molto più alta, per cui era il male minore. Non c’è stata discussione politica sul capitalismo o sul liberismo, e le opposizioni sono state d’accordo con le maggioranze in quasi tutti i paesi. Allora, non è possibile che in poco tempo il mondo sia cambiato. Si tratta di una parentesi dalla quale, come hanno detto quasi tutti i governi, si uscirà prima o poi. Il problema è se prima o poi e quanto durerà la vita di tutti questi interventi, compreso quello del nostro governo, dichiarati temporanei. Durerà tre anni, cinque anni o sarà come per le banche dell’IRI che sono state privatizzate dopo quasi sessant’anni dalla loro nazionalizzazione?
Il passato non è più un modello per il futuro, perché, come ci sono stati tempi fulminanti nella crisi, ci saranno tempi rapidissimi di uscita. Quindi non è la fine del capitalismo, ma l’inizio di un capitalismo nuovo in cui il peso dello Stato nell’economia dovrà ridursi gradatamente per consentire al trend di riprendere.
Vengo ora ai rapporti tra crisi finanziaria e crisi dell’economia reale. Nonostante tutti dicano che quest’ultima è dipesa dalla prima, la crisi dell’economia reale sarebbe avvenuta comunque. C’erano un eccesso di produzione e uno squilibrio tra la domanda e l’offerta a livello mondiale. C’erano stati un trend positivo di sviluppo troppo lungo e una politica monetaria troppo permissiva. La crisi finanziaria ne ha accelerato l’esplosione, ma la crisi dell’economia reale sarebbe comunque arrivata. E le banche nei confronti delle imprese come hanno reagito? Dopo lo scoppio dei subprime, dei derivati e di tutte le altre diavolerie commesse dalle banche casinò di cui parlavo, di fronte al panico, cancellate tali attività, esse hanno infierito anche sull’unica che potrebbe essere in qualche modo governata, il credito alle imprese, che avevano da tempo messo in secondo piano, privilegiando l’intermediazione finanziaria. Così hanno disfatto la banca tradizionale e adesso tornano all’organizzazione originaria, per ricominciare a prestare un servizio finanziario allo sviluppo dell’economia reale. Fortunatamente, un paese come il nostro ha una serie di banche di dimensioni relativamente contenute, maggiormente legate al territorio, che non hanno perso di vista la funzione creditizia, che si sono appropriate di quote di mercato lasciate libere dalle grandi banche che andavano sul mercato mondiale e oggi hanno tassi di sviluppo superiori alla media nazionale.
L’Italia è stata quindi toccata relativamente poco dalla crisi della finanza mondiale, salvo per alcuni casi come Italease o Banca Profilo, che per altro sono stati risolti nell’ambito privatistico, senza un euro di denaro pubblico. I Tremonti Bond sono obbligazioni che le banche dovrebbero emettere a un tasso di mercato con obbligo di rimborso e sarebbero sottoscritte dal Tesoro dello Stato. Essi non sono mirati alla soluzione di crisi, bensì hanno natura preventiva, di rafforzamento patrimoniale delle banche e sono collegati all’impegno di queste ultime di rimettere in circolazione quei denari a favore del sistema produttivo. Non sappiamo quanto di questa iniezione di 20 miliardi di euro tornerà al mercato, ma se consideriamo che le banche devono mantenere, per fini di vigilanza, un rapporto tra il patrimonio e i crediti tale per cui il patrimonio non può essere inferiore all’8 per cento dei crediti, la capacità creditizia iniettata con quei 20 miliardi è di 150 miliardi circa. Se il sistema bancario riversasse nell’economia 150 miliardi di euro, le imprese potrebbero beneficiare di una boccata di ossigeno, anche se ancora non sono noti i tempi, le modalità e le condizioni in cui tutto ciò avverrà. Ma se questo marchingegno rimettesse in azione un meccanismo ingessato per motivi psicologici, le prospettive sarebbero meno buie di quelle che oggi vediamo e la spirale da negativa potrebbe diventare positiva.
Tuttavia, non s’illudano le imprese cattive di uscire dall’impasse della crisi. Esse sono infatti destinate a uscire dal mercato, mentre quelle che vantano buoni progetti industriali, buoni mercati, buona efficienza e situazione finanziaria equilibrata ne usciranno alla grande. Fra il 2010 e il 2011, chi ha avuto la forza di sopravvivere ritornerà a vedere un futuro brillante come quello degli anni precedenti il 2008. Se resistiamo e usciamo indenni dal 2009, potremo tirare un fiato lungo, come credo che il sistema italiano meriti.