I FIORI DEL TEMPO CHE NON FINISCE

Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, cifrante, presidente dell'Associazione Il secondo rinascimento di Ferrara

Vorrei partire dal titolo del libro di Padre Roberto Busa, Quodlibet, parola ostica, forse intraducibile. “Quodlibet”, dice Padre Busa nella presentazione, è il titolo di alcuni scritti di San Tommaso, raccolte di questioni del pubblico che poteva porre domande: Quodlibet ad volumtatem cuislibet, cioè cose di qualsiasi argomento, secondo la volontà di ciascuno. Cose qualsiasi dunque: primo esempio di libertà di interrogazione, di libertà di parola. Ben differente dal dialogo socratico. Ma subito una questione: qualsiasi cosa o una cosa qualsiasi? Questione di sfumatura, essenziale almeno da quando, con il sorgere del ventesimo secolo, Freud inventa la psicanalisi. Non comincia forse la psicanalisi, la scienza della parola libera, quando Freud, constatando l’impotenza dell’interrogazione psichiatrica, invita Anna O. a parlare, dicendo: “Mi dica qualsiasi cosa”?

Lungo il logo, l’interrogazione fondante la risposta, questo invito è stato inteso come un ulteriore obbligo, un’ulteriore forma d’inquisizione, come se si dovesse dire tutto, al colmo della padronanza di chi interroga e di chi risponde. Ma questa regola fondamentale, questo quodlibet, presente nella psicanalisi, va inteso prima di tutto come: “Mi dica una cosa qualsiasi”, ovvero, ciascuna cosa, anche quella che sembra qualsiasi, è degna di dirsi e dicendosi acquista dignità e qualità.

Anche per Padre Busa ciascuna cosa che può sembrare una qualsiasi diventa occasione di riflessione, dunque dettaglio, e trova un valore straordinario. Queste briciole, così egli le chiama, sono come fiori sbucati tra le fessure di una muraglia, fiori del tempo, quel tempo così importante per l’informatica che non conosce spazio, ma che ammette il tempo come eternità dell’istante. “Questi fiori – egli scrive – sono legati dallo stesso filo che lega ogni momento del tempo di vita”.
Un filo annoda questi fiori, quali margherite che da bambine usavamo infilare per confezionare collane e ghirlande. Sono testimonianze di un itinerario intellettuale dove lo studio e la ricerca, ma prima ancora la preghiera, hanno costituito l’essenziale della sua giornata. “La preghiera, così connaturata all’uomo – egli scrive – da poter essere presa come ciò che lo distingue dagli animali, molto più delle banche e delle distillerie”.
Dio è l’operatore pragmatico che sostiene i suoi sforzi e alla cui verità riconduce i suoi sforzi. Senza Dio, l’informatica, l’ipertesto, l’intelligenza artificiale non avrebbero modo di scriversi, non troverebbero la loro logica, la loro combinazione, il loro valore, la loro qualità.
Dal labirinto della ricerca, egli “esce” lungo il filo d’Arianna, filo dell’intelligenza, che egli chiama “anima” e che gli consente di giungere alla scrittura di cose straordinarie il cui messaggio è dovuto a un’incessante articolazione che lo porta alla verità. Verità effettuale che va man mano precisandosi, e che si scrive in un’opera che conta 80.000 pagine, oltre ai vari libri.
Padre Busa, nella sua vita, si è sempre occupato della parola, del linguaggio, della comunicazione. Ne ha cercato le logiche, ne ha colto la particolarità, la specificità, le differenze. Differenze mai rappresentate o rappresentabili perché la differenza è espressione dello spirito e lo spirito è illocalizzabile. “La differenza purtroppo – egli scrive – viene intesa per errore, motivo di avversità, anziché presenza e possibilità di arricchimento. Le differenze non si annullano, bensì si compongono tra loro. Differenze di tradizioni, che sono patrimoni personali e di temperamenti e di caratteri, di valutazioni, di modi di pensare, di cognizioni, di logica… Sono infinite. Il mondo più è umano e più è il trionfo della differenza”.
E la macchina e la tecnica? Anch’esse entrano nel dispositivo della comunicazione per aggiungere valore all’uomo. Scrive infatti: “L’osmosi fra umanesimo e tecnologia lascia prevedere una nuova filologia, una nuova linguistica e un nuovo umanesimo: più umanisti perché e non benché più scientifici e più tecnologici”.
E dunque, se Freud ci sfida con la regola fondamentale a dire una cosa qualunque, intendiamo anche “quodlibet” nell’accezione freudiana più nota nella vulgata, secondo cui si tratta di dire qualunque cosa. “Quodlibet”, dunque, come principio del qualunquismo? Come principio dell’indifferenza? Come se ciascuno dovesse dire tutto, secondo il principio inquisitorio? Il principio della totalità, secondo l’aristotelismo, è il principio della morte: tutti sono mortali. Ma non c’è solo l’aristotelismo. E Padre Busa, cui Aristotele arriva, ma lungo la lettura di San Tommaso, ha dalla sua un’altra accezione di totalità, quella cattolica appunto: catà tòn olon, “secondo il tutto”. Questo “tutto” non fa universo, ma è integrale. L’integrazione di ciascuna cosa nella parola, nella parola che, come dice Giovanni, è il principio.

Allora, questo mulino a cui portare acqua e che dà farina, non macina, non fa poltiglia, ma consente che proprio quella che rischierebbe di essere una marmellata, cioè Internet, trovi anch’essa uno statuto, uno strumento per giungere a cose infinite. “Sono infinite – egli scrive – le cose che l’uomo non può fare con il solo suo corpo, ma riesce, senza mai finire, a costruirsi strumenti con i quali farle”. E tra le possibilità ci sono anche quelle in cui, per delega del creatore, gli spiriti liberi, cioè gli uomini, scoprono da sé “la possibilità di veri e propri inizi di novità, cioè sistemi e strategie di fare e non fare, cioè organizzare da sé responsabilmente e in proprio vere nuove opere: pur non creandole dal nulla, ma assemblando, combinando, applicando, innestando, incrociando, ecc. materiali già esistenti”.
La parola di Padre Busa è cattolica, procede per integrazione degli elementi. Il suo cattolicesimo non è legato solamente al suo statuto di sacerdote, ma è nella logica del suo discorso e trae con sé l’istanza dell’industria della parola, l’intersezione di internazionalismo e intersettorialità.