L'IMMAGINE ACUSTICA

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cifrematico, direttore dell'Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Crede a ciò che vede chi prende le distanze dalla religione? Al contrario, la religione più praticata è sempre stata quella che ha messo al bando l’incredibile: la religione della morte. Fondandosi sul visibile, sul fatto come tale, la religione della morte edifica l’uomo mortale. Mai più di oggi questa religione è stata diffusa e nutrita da mille occasioni di spettacolarizzazione mediatica. Impone a tutti e a ognuno la visibilità del fatto come tale, del fatto di morte, a vantaggio dell’audience e a scapito dell’intelligenza. Vietato sognare, vietato dimenticare, bisogna ricordare: ricordati che devi morire. E immagini assordanti, sprovviste di eco, devono passare davanti agli occhi di tutti, tutti i giorni.
Eppure, se ciascuno prosegue il viaggio della vita, è proprio perché non crede a ciò che vede, non crede che un cadavere sia il segno della fine della vita. Una società basata sul credibile, sull’immaginabile e sul visibile è una società senza dogma, una società che crede di fondarsi sulla scienza proprio mentre si fonda sulla religione della morte, cioè sulla credenza che la morte sia l’unica certezza possibile. Ecco perché immaginare la morte è sempre stata la massima occupazione del discorso occidentale. Ma la morte è quanto di più inimmaginabile possa accadere agli umani, come la vita. Nessuna immagine della morte, neppure davanti al cadavere. E l’immagine, anziché esporsi alla vista, si ode, è acustica. Per questo noi ancora oggi possiamo dire che Dante è vivo e non muore, per quel che ancora udiamo nel suo testo e per la funzione di nome intoglibile e inattribuibile a un soggetto. E così si può dire di Leonardo, Machiavelli, Ariosto, Leopardi, Pirandello. Chi dice di avere visto Tizio o Caio morti bara, scambia una formalità, una pretestualità, simile a quella del medico legale che deve constatare il decesso, con un testo fondante, quello che servirebbe a cancellare il nome dalla memoria dell’avvenire. L’unica memoria ammessa per il morto sarebbe infatti quella del passato, il fardello di ricordi.
Ma l’immagine, come sottolinea la psicanalisi fin dal suo sorgere agli  inizi del secolo scorso, non è l’immagine di qualcosa. Non a caso, per Freud, che inaugura la pratica di un ascolto non finalizzato alla diagnosi, i sogni, i sintomi, gli atti mancati, i lapsus e le dimenticanze, anziché segni di una patologia, sono ciò grazie a cui si può constatare l’esistenza di un’altra scena (Ein andere Schauplatz), la scena dell’inconscio, che ignora la morte.
Credere di vedere è il primo pregiudizio che occorre dissipare per instaurare il cervello della vita, il cervello del viaggio. Viaggio che si compie attraverso la narrazione, anziché viaggio per vedere cose da narrare, come avviene nella società della spettacolarizzazione universale, dove importa esserci e, possibilmente, farsi riprendere dalle telecamere.
Il viaggio della vita è inimmaginabile, incredibile, non è assoggettabile alla visione. Non perché sia nascosto o abbia bisogno di postulare una doppia esistenza, ma semplicemente perché è nella parola e la parola è irrappresentabile. L’immagine stessa è irrappresentabile perché nella parola. E in nessun caso si tratta di costruire o ricostruire la propria immagine per assicurarsi la gloria. “Tizio è un uomo da dieci milioni di dollari”; “Caio non vale un soldo bucato”: la società della spettacolarizzazione universale attribuisce agli uomini e alle donne un  prezzo come segno della predestinazione, dando loro un valore che dipende dalla sostanza, un valore come causa preesistente al fare e alla differenza assoluta. E farsi valere diventa l’imperativo categorico della vita presa come un tutto, al cui culmine dovrebbe giungere la gloria, come risultato del bilancio redatto alla fine dei conti.
Né terrena né divina, la gloria interviene nella dimensione di sembianza in seguito alla scrittura delle cose che si fanno. La gloria è l’approdo, irrimandabile, come il piacere, quando il corpo e la scena si combinano nella cifra, non per dare credibilità e visibilità al soggetto, ma proprio perché, come scrive Armando Verdiglione in Processo alla parola, “L’immagine, che si scrive perché acustica, approda all’inopinabile, all’incredibile, al dogma, al tipo”. Più che assicurare credibilità, quindi, la gloria è indice dell’incredibile della sembianza, la sua  cifra.
Come sottolinea la cifrematica, nulla è al di fuori della parola e nessuna sostanza, nessun fatto sta sotto o dietro a fondamento della parola. Ecco perché non solo la scena, ma anche il corpo è immortale – e l’insistenza del cristianesimo sulla resurrezione giova a indicarlo –, perché corpo e scena sono nella parola, anziché ineffabili, al di fuori di essa, in attesa di essere osservati, descritti, curati e medicati, per essere salvati dalla morte.
Nel discorso occidentale, invece, la malattia è sempre mortale e mentale, perché frutto della mentalità, di quella mentalità che si basa sulla religione della morte, la immagina, la vede, la coltiva, ne fa la propria ragione di vita e rende ognuno soggetto della disperazione.
Per Kierkegaard (La malattia per la morte, Donzelli), la malattia per la morte è la disperazione. Citando il brano di san Giovanni (11, 4), a proposito della resurrezione di Lazzaro (“Udendo ciò, Gesù disse: ‘Questa infermità non è per la morte, ma a favore della gloria di Dio, perché, per mezzo di essa, il Figlio di Dio sia glorificato’”), il filosofo danese insiste: “Intesa cristianamente, neanche la morte è la ‘malattia per la morte’, e tanto meno tutto ciò che si chiama sofferenza terrestre e temporale”.
Corpo in gloria, quindi, anziché corpo come tavola della sofferenza esposta alla visione, ciò che consentirebbe di vedere la verità dell’essere per la morte, la sua malattia. Corpo in gloria, quindi, non alla fine dei conti, ma ciascun giorno, procedendo dalla speranza – secondo l’aritmetica, che instaura l’altro tempo, il tempo che non finisce –, narrando e rischiando l’intendimento di cose inaudite.