COME ASCOLTARE L'OPERA D'ARTE
Tra i libri di Shen Dali mi hanno interessato molto quelli scritti insieme a Dong Chun (Marc Chagall e Antonio Vangelli, Henri Matisse e Alfonso Frasnedi, Pierre-Auguste Renoir e Griegorij Zejtlin, Spirali edizioni).
L’accostamento tra Matisse e Frasnedi è abbastanza inusuale, anche perché in Italia siamo abituati a tenere lontani i classici, forse per un residuo scolastico. Il punto di vista di Shen Dali è abbastanza diverso da quello di un critico, diciamo di tendenza. C’è una dichiarazione che può introdurci nella precisazione di questo discorso: Aragon 1945: “Ogni mezzo di espressione ha i propri limiti, le proprie virtù e i propri difetti. Niente è più arbitrario che tentare di sostituire la parola scritta al disegno e alla pittura. Questo si chiama critica d’arte e non mi pare di rendermene colpevole in questo momento”. Come Aragon, Shen Dali non dà spiegazioni, ma tenta un’operazione vertiginosa e abbastanza difficile, che a volte, con grande virtuosismo, gli riesce e altre volte no. Nel tentativo di mettere a confronto due culture, trova per ogni pittore dei versi della poesia cinese dell’antichità, che evidentemente conosce benissimo, con cui fa emergere (quasi un viaggio, un “trasporto”) una sorta di rapporto, per dir così, fra i versi citati e il quadro. Ne viene una specie di gioco vertiginoso, per cui le categorie storico critiche con le quali siamo abituati a seguire le arti figurative, i pittori e la poesia, vengono completamente decentrate.
Shen Dali porta il discorso verso il taoismo, verso il vuoto, verso l’ontologia, verso il linguaggio. “I salici sono verdi”, dice citando un verso chan, in giapponese zen, “e i fiori rossi. I fiori sono rossi e, tuttavia, non sono rossi, i salici sono verdi e, tuttavia, non sono verdi”. Sono frasi che mi hanno colpito moltissimo proprio per questa dichiarata incertezza del linguaggio. È chiaro che i salici sono verdi e, tuttavia, non sono verdi. E il modo più semplice, più diretto, per stabilire non solo l’ambiguità del linguaggio, ma anche la sua oscillazione, il suo definirsi attraverso la non definizione. I versi si riferiscono all’opera Maschere, di Antonio Vangelli, nel tentativo di stabilire un corto circuito, un rapporto fra un tipo di linguaggio poetico e il linguaggio della pittura.
Naturalmente, il rapporto fra pittura e poesia esiste da molto tempo: soprattutto all’inizio del Novecento, autori come Aragon, Apollinaire (che era addirittura un caposcuola) erano in contatto diretto con i poeti, dai quali traevano giovamento e ispirazione. È quello che si chiama interdisciplinarietà, che poi è andata un po’ perduta. I quadri potevano benissimo essere definiti poesie, oppure poemi, e i poemi stessi potevano in qualche modo dirsi dei quadri.
Ma il poeta che è più centrale (e centrato) nei riguardi del rapporto tra arti figurative e poesia credo che sia Baudelaire. C’è un saggio stupendo, Il pittore nella vita moderna, in cui egli dice: “Ricordate un quadro, è veramente un quadro uscito dalla penna più vigorosa del nostro tempo, intitolato L’uomo della folla”. L’uomo della folla è un racconto di Edgar Allan Poe. Dietro i vetri di un caffè, reduce da una malattia, un uomo vede passare la folla e ha dei pensieri. E allora Baudelaire dice che questa convalescenza è molto importante perché è un ritorno all’infanzia, dove si manifesta una sorta di genialità che dopo forse sarà dimenticata. Mi piace citare questo passaggio proprio perché, al confronto, l’idea del fanciullino in Pascoli è più debole. Ma soprattutto sono di grande interesse le citazioni in cui Baudelaire dice che la moda è interessante perché vi si può trovare qualcosa che riguarda l’arte. Dice inoltre: “La perpetua correlazione tra quello che si chiama l’anima con quello che si chiama il corpo spiega benissimo come tutto ciò che è immateriale o emanazione dello spirito rappresenti e rappresenterà sempre lo spirito da cui deriva. Guai a chi studia nell’antico qualche cosa che non sia l’arte pura, la logica. Per immergersi troppo nell’antico perde la memoria del presente – questo è molto bello e andrebbe ripetuto tutti i giorni alle nostre accademie –, rinuncia ai valori e ai privilegi forniti dalle circostanze, giacché quasi tutta la nostra originalità deriva dall’impronta che è il tempo”. Questo tempo è un tempo presente, quindi, il tempo presente del passato è quello che ci mette direttamente in rapporto con l’oggetto e con la sua vitalità. Cosa c’entra tutto questo con Shen Dali? È proprio questo il punto: pur citando poeti del 1200, del 1300 o addirittura del 600, il rapporto, proprio perché nuovo, spaesante, crea degli effetti sorprendenti. Inoltre, Shen Dali a volte parla dell’ontologia, dal momento che il Tao è in un certo senso anche una scienza dell’Essere, e quindi ci sono passaggi che si possono definire persino heideggeriani. E qui voglio citare un altro libro che riporta un dialogo fra Heidegger e un giapponese, Colloquio nell’ascolto del linguaggio. Dice il giapponese: “Noi in Giappone siamo stati in grado d’intendere subito la conferenza Was ist Metaphisik, quand’essa ci giunse nel 1930 nella traduzione che ne arrischiò uno studente. Noi ci meravigliamo ancora oggi che gli europei siano potuti cadere nell’errore d’interpretare nichilisticamente il Nulla, di cui si ragiona nella conferenza accennata. Per noi il vuoto è la parola più alta per indicare quello che Ella vorrebbe dire con la parola Essere”. Più avanti, Heidegger chiede se in giapponese esiste una parola che possa definire che cos’è il linguaggio, ma il giapponese, heideggerianamente, evita di rispondere su questa questione. Questo dialogo poi si chiude con un fatto ancor più sconcertante. “Allora noi stiamo dialogando, stiamo parlando del linguaggio” dice il giapponese. “No, – dice Heidegger – noi non stiamo parlando, non stiamo dialogando affatto, ma stiamo considerando il linguaggio come oggetto. E se noi consideriamo il linguaggio come oggetto di analisi, persino come oggetto di riflessione, del linguaggio non capiamo niente”. E qui segue un tipico passaggio spaesante-heideggeriano in cui si legge: “Noi il linguaggio lo dobbiamo ascoltare. Soltanto quando ascoltiamo e soltanto ascoltando, possiamo percepire le onde del linguaggio”. Sicché, un dialogo di trenta, quaranta pagine, si chiude con l’affermazione che dialogo non c’è stato. Poi il giapponese si difende bene dicendo che non è vero perché in realtà hanno anche ascoltato. Ma il succo di tutto ciò è che sostanzialmente il linguaggio non può essere oggetto di analisi, ma dev’essere ascoltato, percepito, lasciato risuonare.
Se questo punto ha una sua suggestione, ecco che, nel rapporto fra i poeti che vengono citati da Shen Dali e i quadri dei maestri presi in esame, si crea una specie di lettura e di ascolto, come se opere di diverso genere dialogassero fra loro, ovvero potessero “risuonare” nella distanza di questo linguaggio. Grossolanamente, potrei dire che a volte la poesia cinese è un po’ leziosa, con troppe nuvole, troppi momenti di riposo, c’è sempre la pioggia di primavera. Tuttavia, questa apertura, questo richiamare l’io del poeta in una situazione di confine fra percezione della natura e l’infinito (verso l’Essere, si potrebbe benissimo dire) è un’apertura verso una conoscenza interiore molto profonda. Partendo, dunque, dai versi e dalle poesie antiche, Shen Dali scende, per dir così, verso il quadro e dà una nuova indicazione, che non è più quella storico critica alla quale noi siamo abituati, ma una lettura altra, una lettura limite. Per esempio, per il Violinista alla finestra, celebre quadro di Matisse, vengono citati i versi di Verlaine; c’è il violinista, questa figura alta, silenziosa, con le nuvole – nuvole che poi saranno presenti anche nelle opere di Frasnedi, soprattutto del Frasnedi anni Settanta –, questa figura presa di spalle, in questo silenzio, che diventa un silenzio astratto, metafisico; una specie di riflessione generale, come di fronte alla Musa di Picasso o a certi De Chirico.
Non posso qui ripercorrere testo per testo, mi limito ad indicare il rapporto difficile e nello stesso tempo affascinante che Shen Dali ha voluto istituire fra l’armonia del verso dell’antica e alta poesia cinese e i quadri dell’Occidente, trovando momenti di forte consonanza. Dal punto di vista critico storico, questa è un’ipotesi interessante, anche se non va presa come linea decisiva. È un’ipotesi di apertura che ci permette di vedere con maggiore intensità l’interiorità del quadro.