ARCHESTESIE PER IL MARKETING
Premetto di essere in una situazione curiosa perché sento di essere seduta sulla sedia sbagliata. Mi spiego. Conosco Marco Maiocchi da tanto tempo, faccio il consulente di comunicazione e ho incontrato uno degli autori di Archestesie in percorsi di ricerca che mi portavano a sperimentare e curiosare già da tempo su certe corrispondenze o relazioni, come le chiama lui. Però vorrei mi consentiste un piccolo atto d’indisciplina. Nella vita si finisce per fare un mestiere ma si era cominciato facendo altro. Io sono un mancato architetto, una cantante mancata e, probabilmente, anche una comunicatrice mancata.
Vorrei lanciare con la benevola complicità dell’assessore un progetto delirante. Vorrei applicare l’archestesia alla messinscena dell’opera lirica. Penso che potrebbero emergere cose che finalmente porterebbero una ventata di aria fresca in qualcosa che sta diventando veramente insopportabilmente gratuito e polveroso. Chiusa parentesi, mi rimetto sulla sedia e torno al mio ruolo.
Il senso di questa ricerca potrebbe rimanere nell’ambito della sperimentazione della ricerca teorica. Di fatto non è così. Fin dagli anni novanta, la comunicazione e il marketing si sono interessati di polisensorialità. Alla fine degli anni ottanta, nei convegni si pronunciava questo termine perché ci sono pochi secondi per lasciare un’impronta indelebile d’identità, quello che i pubblicitari chiamano “posizionamento”, attraverso un’esperienza con un prodotto, con una comunicazione. Se non si sfruttano queste coerenze, queste relazioni centrali che attraversano le cose e trovano luoghi specifici nella mente, il tempo e lo spazio a disposizione, che sono sempre più piccoli, non bastano a lasciare quell’impronta. Perciò ci s’interroga costantemente sul colore di un oggetto, sulla forma di un marchio, sulla percettibilità e indelebilità di un jingle. Adesso si parla di branding sonoro perché siamo a confronto con mercati globali nei quali le lingue e gli alfabeti sono diversi e i segni devono essere gli stessi. Allora lo swosh di Nike, piuttosto che l’arco di MacDonald, o la piccola frase di Intel devono essere assolutamente interculturali, inconfondibili e sopra tutto avere lo stesso senso per tutte le culture. Se non si vanno perciò a cercare le strutture profonde nei cervelli delle persone e nei loro sensi, non si possono catturare le loro emozioni e le loro attenzioni. Credo che questo sia ormai testimoniato dallo stato della ricerca psico-linguistica che predica che l’attività di un prodotto sta in una X. Ecco perché i detersivi e i medicinali si chiamano Aiax, Dixan e Sanax. Oppure perché alcuni prodotti se hanno una confezione allungata e sono di colore chiaro non possono avere né una “a” né una “u” nel nome, e via di questo passo, perché la forma di un package o la bottiglia di un profumo debba essere evocatrice del suo contenuto, e così via. Ecco perché questa ricerca è soltanto un tentativo coraggioso di sistemazione di qualcosa che empiricamente si andava cercando e che è sicuramente necessario.