L'ICONA DELLA CITTÀ PLANETARIA
Mostrare, celare. Celare per mostrare meglio, mostrare per celare meglio. Definire l’immagine, manipolarla, epurarla. Vale più la cosa o la sua immagine? A più di mille e trecento anni dallo scontro tra iconoclasti e iconoduli, tra chi proibiva l’immagine e chi l’adorava, quale partita si gioca intorno al valore? Sarebbe immediato rispondere: il potere come tale, quindi invisibile, si rende visibile in valori simulati, espliciti, spettacolari. E l’immateriale dovrebbe divenire la sostanza del valore e dello scontro sul valore: il valore dell’impresa sarebbe il valore della sua immagine visibile, incarnato dal logo, dal marchio, dal brevetto. Iconodulia del logo, iconoclastia del logo, il logo come icona. Nella luogocomunicazione quel che diviene icona vale: icona, beninteso, come oggetto di culto, magari pronunciato all’inglese, per nasconderne l’aspetto religioso che sta seducendo la critica d’arte, l’economia politica, l’analisi di bilancio. L’icona come comunicazione facile, Pentecoste riuscita, corpo glorificato.
Questa icona senza tempo deve mediare, passare, veicolare un valore presupposto, prestabilito. Il valore divino, come causa, già dato, che dev’essere partecipato, frantumato in valori da diffondere e da condividere. Su cui creare il consenso e il consumo. L’arte e la comunicazione dovrebbero essere al servizio di questi valori condivisi che assorbono la qualità delle cose; e il marketing ideologizzato annuncia la produzione e la vendita di valori, non di prodotti. Ma questa nuova iconoclastia non riesce a inquadrare e a rappresentare le istanze intellettuali, artistiche, imprenditoriali che attraversano il pianeta. Perché partire, in questo numero della nostra rivista, dall’architettura, dalla pittura, dalla musica, dal cinema, per parlare del valore? Marco Maiocchi, Francesco Rampichini, Ettore Lariani indagano le archestesie, un’analisi dei differenti modi della percezione e del loro combinarsi in modo inedito. Alain Robbe-Grillet e Michael Cimino considerano letteratura e cinema come differenti modi della comunicazione che non si assimilano e non sono complementari. L’immagine non è il visibile, è acustica, e l’arte è variazione costante. Per ciascuno di questi intellettuali l’arte non si rassegna a divenire il nuovo equivalente generale dei valori, non supporta il passaggio e la mediazione, compito teocratico dell’icona, da Bisanzio all’ideologia della globalizzazione.
Con la cifrematica emerge un’altra icona, l’icona nella parola, senza riferimento al valore ineffabile. “La pittura è muta se si vede con gli occhi, invece deve risuonare”, scrive il pittore Alfonso Frasnedi. L’immagine su cui poggia l’icona è acustica, si scrive in modo differente e vario, fino all’inedito, per questo non s’immagina, dunque non vale alla conoscenza né alla rimemorazione. Non è fissa né identica a sé, non è veicolo del ricordo ma trae la memoria alla scrittura, al colmo del racconto. Fino alla gloria, che non è mai visibile, dimostrabile, spettacolare. Gloria: nessuna inscenazione del corpo, nessuna incorporazione della scena. L’icona attesta la combinazione del corpo e della scena, per questo giova alla gloria della parola. Una gloria non divina e non umana, una gloria essenziale alla qualificazione delle cose.
Quando gli studi di valutazione del valore dell’azienda e dei suoi prodotti terranno conto della gloria? Perché considerano la formalizzazione l’immagine della sostanza? Perché rincorrono il valore dell’icona anziché insistere sull’icona del valore? Il valore non si pluralizza nei valori, perché non è ontologico né convenzionale, non è la sostanza dell’impresa. Non è già dato, e la memoria non lo conserva. Il valore è instaurato dalla memoria che si scrive, scrittura della memoria dell’impresa che è memoria dell’avvenire, non del passato dell’impresa.
Nell’impresa del secondo rinascimento l’avvenire è stabilito dai suoi dispositivi produttivi, commerciali, di direzione, di vendita, finanziari, dalla loro formalizzazione e dalla loro scrittura. Per questo il valore dell’impresa non preesiste all’atto di produzione e di vendita, e alla loro scrittura, fino alla loro formalizzazione, punta dell’intellettualità.
La vendita secondo l’intellettualità esige l’icona della città planetaria, che dissipa il sistema merceologico: come scrive Armando Verdiglione, i prodotti non avrebbero nessun interesse se non ci fosse l’icona, se non fossero inseriti nel processo intellettuale, nel processo di valorizzazione. Il logo, il marchio, il brand trovano così un altro statuto. Con l’icona, non c’è modo di umanizzare o divinizzare l’immagine, di fondarsi sulla memoria, di rappresentare l’esperienza. Per questo caratterizza la comunicazione planetaria, cioè la comunicazione senza passaggio e mediazione con cui le cose divengono qualità.
Essenziale allora l’indagine di Shen Dali, a proposito dell’arte occidentale, su archestesie e adiacenze tra pittura, poesia e scrittura: è nella loro combinazione, nella loro cifratura che oriente e occidente possono instaurare un’altra comunicazione, quella dell’immagine che diviene acustica, e trae all’intendimento. Unica chance perché tra Europa e Cina lo scambio sia un modo della civiltà planetaria, non l’occasione di uno scontro d’inciviltà.