IL TEMPO NON FINISCE
Ospedale civile di C., estate 1995: Giuseppe T., di sessantatre anni, è ricoverato da un mese per accertamenti in merito a una disfunzione della prostata. Il problema si accentua sempre di più, tanto che ormai riesce a urinare pochissimo e con gran dolore. Come se non bastasse, ha le gambe gonfie come due barili. Quando arriva da B. il nipote, Vittorio, appena laureato in medicina, interpella i medici: tumore alla prostata con metastasi disseminate in tutto il corpo, dichiara la diagnosi. Vittorio non vuole crederci, gli sembra strano che un tumore abbia proliferato tanto in fretta e prende un appuntamento a B., con uno dei più grandi urologi d’Europa, anche se ha tutti i medici contro: sembra loro inutile fare tribolare un uomo già provato dalla malattia.
Purtroppo, però, a B. il luminare si limita a confermare la diagnosi dei medici che lo hanno preceduto, con il rammarico del giovane medico, che tuttavia continua a non darsi pace. Il giorno dopo, ha un’idea: chiede al suo amico e maestro in diagnostica per immagini di fargli utilizzare l’ecografo, per capire bene che cosa ci sia effettivamente in tutto quel gonfiore. E finalmente ha la conferma di ciò che aveva sospettato fin dall’inizio: man mano che sposta la sonda dell’ecografo sull’addome di Giuseppe, all’altezza della vescica, si rende conto che quella che doveva essere ascite è soltanto urina, che, non trovando la sua normale via d’uscita, impregna i tessuti circostanti. E un semplice catetere basterà a risolvere la crisi, che sarebbe stata certo letale per Giuseppe, se avesse dovuto convivere per altri due, non otto, giorni, con quei diciassette litri di urina che ormai impediscono il flusso del sangue.
Nel discorso occidentale, ognuno, procedendo dall’economia della morte, propone la contabilità della vita, dove prevale l’idea della fine del tempo e la salute viene scambiata per la salvezza.
Ogni volta che la morte viene data come probabile, possibile, necessaria, interviene talora anche nella medicina una mitologia sul cancro, in cui risuona il discorso stesso della morte. In questa mitologia, non conta se facciamo o non facciamo, perché tanto dobbiamo morire, non importano il progetto e il programma di vita di ciascuno, non importa come ciascuno vive in modo differente e vario, perché tanto ognuno è destinato a morire.
Secondo il luogo comune, ciò che ognuno fa vale solo se e finché ha come scopo la salvezza, altrimenti, meglio lasciar perdere, lasciarsi andare. I medici dell’ospedale di C. dicono che, in questo caso, dove un uomo è dato per spacciato, non c’è niente da fare, ma c’è solo da aspettare che tutto finisca, evitando di fare stare ancora più male “il povero malato terminale”.
Nel numero della rivista “Il secondo rinascimento”, intitolato Discorso paranoico e cancro, Armando Verdiglione definisce il cancro come “contrappasso all’impossibile realizzazione del discorso della morte”. Il cancro interviene proprio come contrappasso rispetto a quel discorso che vorrebbe negare la parola, come se la parola fosse totalmente controllabile, dominabile, assoggettabile, pianificabile, spazializzabile. Per questo non si può rispondere al discorso della morte con un altro discorso della morte. Non si può rispondere in nessun caso: “Non c’è niente da fare”, perché in ciascun istante della vita occorre fare.
Con quale criterio è stata formulata quella diagnosi? Come mai nessuno ha pensato d’indagare come ha fatto Vittorio? Non che non esistesse il tumore, ma si poteva curare e guarire, come avverrà, dopo alcune applicazioni di radioterapia. Nessuno ha pensato alla denuncia perché sotto accusa è una mentalità, non qualcuno in particolare. Una mentalità che pone il male dinanzi e, per questo, nega la parola in nome della significazione delle cose. Innanzitutto, perché in questo discorso il cancro significa la morte, diviene il nome della morte, e poi perché chi riceve una diagnosi di cancro, secondo questo discorso, viene considerato soltanto come un malato terminale, cioè qualcuno il cui unico itinerario è quello verso la fine. In assenza di parola e d’intellettualità, perché, tolto l’infinito, ciascuna cosa perde valore.
Se c’è una lezione che possiamo trarre dalla battaglia per la vita che occorre fare quando interviene il cancro è proprio che ciascuna circostanza, anche quella apparentemente più sfavorevole, deve divenire pretesto per instaurare dispositivi di parola e che il tempo non finisce a vantaggio della significazione delle cose: la parola sfugge agli umani e il cancro come contrappasso all’impossibile realizzazione del discorso della morte indica che non c’è padronanza sulla parola, come il discorso paranoico non evita di sottolineare.