LA FARMACEUTICA TRA RICERCA E MERCATO
Nel libro Questione cancro (Spirali), si parla abbondantemente dei costi delle terapie. Parlerò del libro a partire dalla mia formazione, prevalentemente incentrata sull’economia sanitaria. Nel corso di questo convegno (Questione cancro. Novità nella ricerca e nella cura, Bologna, 14 giugno 2006) è emerso che i nuovi farmaci hanno costi molto elevati rispetto ai vecchi. È vero, ma occorre chiedersi perché e se ci sia una soluzione a questo problema. La produzione di farmaci non è come quella di un’automobile o di una casa, la cui fabbricazione esige un impiego enorme di materiali e di lavoro umano, dal costo sempre molto elevato. Nel campo dei farmaci, il costo maggiore è da attribuire all’invenzione del farmaco. Una volta inventato, il costo di ciascuna unità in più da produrre – che noi economisti chiamiamo costo marginale – equivale più o meno a quello di una caramella. Generalmente, si tende a non considerare questo aspetto, che, invece, è importantissimo.
Si dice sempre più spesso che occorre aumentare la ricerca, che occorre aprire le porte della ricerca ai giovani, contribuendo così a un suo rinnovamento continuo: ma i giovani, per fare ricerca, devono essere retribuiti. Dove trovare le risorse necessarie? O ammettiamo la brevettabilità del farmaco e chiediamo al consumatore di ripagare lo sforzo compiuto per inventare e produrre il farmaco – e in tale caso i costi della ricerca nell’università non sarebbero molto lontani dai costi delle case farmaceutiche – oppure stabiliamo che il prodotto farmaco è fuori dal mercato e come tale va considerato bene di merito (meritorio o meritevole di essere distribuito anche in carenza di disponibilità a pagare da parte del consumatore). In tal caso il finanziamento dovrebbe essere pubblico e potrebbe essere più sensibile alla ricerca di farmaci per malattie rare e poco appetibili dal punto di vista commerciale.
Per esempio, alla Somalia, all’India, al Brasile e ad altri paesi in via di sviluppo, i prodotti contro l’Aids devono essere venduti a un prezzo adeguato alle loro possibilità economiche, quindi, a un costo molto inferiore a quello richiesto all’interno della UE. C’è stata una polemica piuttosto rilevante a questo proposito: si è diffusa la notizia che c’é chi “clona” farmaci senza averne il brevetto e, naturalmente, li può fare pagare molto meno rispetto a quelli coperti da brevetto. Questo esempio è molto adatto a farci capire il motivo dell’alto costo dei farmaci. L’industria farmaceutica sa che il rendimento di ciascun prodotto è limitato a quei paesi che possono permettersi il lusso del farmaco nuovo, quei paesi in cui la vita umana è molto preziosa e sono disposti a pagare cinquanta euro al giorno per un farmaco che serve a mantenere in vita una persona, anche anziana o improduttiva. Tutto ciò è impensabile in tutti quei paesi in cui ciascuno deve lottare quotidianamente per trovare i mezzi di sostentamento e una terapia di un dollaro al giorno è già considerata costosissima. Questa limitazione è valida anche per paesi emergenti, dove ci sono le caste dei poveri, che non hanno disponibilità sufficiente per acquistare neppure farmaci che da noi sono considerati a basso costo. Chi produce farmaci come quelli contro l’Aids, che vengono remunerati in Italia con cinquanta euro per ciascun giorno di terapia, non può vedere come mercato appetibile quello dei paesi in cui possono essergli remunerati, al massimo, un euro: infatti, anche se l’euro fosse sufficiente a coprire i costi marginali, non coprirebbe il rischio, più volte verificatosi, che i farmaci inviati in quei Paesi ritornino in Europa con importazioni illegali parallele, riducendo le possibilità di ricavi ben più consistenti ottenuti nei paesi ricchi.
Non pensiamo, dunque, che il valore economico di ciascun farmaco sia quello che appare sulla confezione che riceviamo in farmacia. Non pensiamo neppure che la prescrizione del medico parsimonioso riesca a fare miracoli economici, anche se di conseguenza il bilancio dell’Azienda Sanitaria potrà alleggerirsi.
Come potere uscire da questo giro vizioso, dal momento che il problema della distribuzione del farmaco non può essere risolto nel libero mercato?
Innanzitutto quella farmaceutica è un’industria strategica per lo sviluppo di un paese. Si prevede che il mercato del farmaco sarà fra quelli con le maggiori possibilità d’espansione. Anche l’Italia dovrà considerare seriamente questo aspetto, perché non si possono continuare a produrre soltanto piastrelle. L’Inghilterra, la Svizzera, gli Stati Uniti, la Germania, la Francia e il Giappone, i paesi più industrializzati, che non sono i più sprovveduti, insieme alla Cina si sono impegnati in modo particolare in questo settore, hanno puntato sul farmaco come su un cavallo vincente.
Teniamo conto, inoltre, del fatto che alcuni farmaci, tra cui quelli oncologici, diventeranno sempre più a misura d’uomo, individualizzati, e si arriverà così alla farmacogenomica: se una persona ha una particolare conformazione genomica, si arriverà a somministrarle un farmaco mirato, studiato a partire da tale conformazione, anziché un farmaco standard. Questo significherà decuplicare la spesa e i costi dei farmaci, perché dovrà essere effettuata una ricerca per ciascuno, per capire qual è il farmaco giusto per l’uomo giusto in ciascun momento. E non è fantascienza: già il tumore alla mammella oggi viene trattato a seconda della presenza o meno dei recettori ormonali sul tessuto tumorale della paziente. I paesi in cui la vita del singolo è considerata molto poco, naturalmente, dovranno raggiungere il nostro livello economico prima di conquistare le stesse possibilità di terapia. La forbice dell’iniquità delle possibilità di cura rischia di allargarsi sempre più, se si lascia al libero mercato la soluzione dei problemi economico-sanitari.
Per riprendere la questione dell’esigenza d’investire nel settore farmaceutico, un paese come l’Italia, che puntasse sulla ricerca e sulla produzione di farmaci potrebbe mantenere una posizione di rilievo nei confronti degli altri, con i quali scambiare proficuamente prodotti farmaceutici con prodotti agricoli, estrattivi ed altri ancora che i paesi in via di sviluppo producono a prezzi molto competitivi rispetto a quelli italiani. Il nostro Paese deve operare una scelta di impegnare le strutture pubbliche (università, istituti di ricerca e aziende sanitarie e ospedaliere del SSN) a effettuare ricerche farmacologiche e a favorire le case farmaceutiche operanti sul nostro territorio, in piena sinergia. L’utilizzo dei brevetti dei farmaci, almeno quelli standard (non personalizzati), potrà tenere conto dell’esigenza di equità fra tutti i paesi, compreso quelli più poveri, impedendo i parassitismi: lo scambio equo e solidale del prodotto farmaceutico può avvenire sulla base di accordi fra stati, al di fuori del mercato, che compensino almeno in parte gli elevati costi della ricerca, mentre la parte restante viene accollata allo stato.
Un caso particolare è costituito da quei prodotti, pure venduti in farmacia, che non esigono ricerca ma semplicemente le prove di non tossicità: anche per questi prodotti sarebbe opportuno un intervento pubblico per calmierarne il prezzo di vendita al paziente, che inspiegabilmente è molto simile a quello dei prodotti farmaceutici che invece necessitano della ricerca scientifica vera e propria e della prova scientifica che porta all’Evidence Based Medicine, il criterio di ammissibilità di ogni intervento sanitario nei livelli essenziali di assistenza (LEA) garantiti dal SSN. Se il SSN deve compiere una deroga a questo criterio, allora granuli e soluzioni a concentrazioni infinitesimali varie devono essere prodotte e distribuite a prezzi di puro confezionamento, in quanto ogni ulteriore aumento dei costi sarebbe un illecito arricchimento di alcuni alle spalle di malati e persone deboli.