LA CARTA DELLA MODERNITÀ
Chi redige oggi la carta della modernità, quella carta a cui la cifrematica, scienza della parola che diviene cifra, sta dando il suo contributo da oltre trent’anni? Come redigerla senza più l’idea di evoluzione e di progresso che per secoli ha contrapposto la modernità alla classicità?
Quella che viene chiamata modernità è spesso un’idea di superamento, di padronanza sul tempo: il nuovo che deve rompere con il vecchio, quindi, un tempo che finisce per lasciare il posto a un altro tempo che supera il precedente. E, così, il tempo viene hegelianamente rappresentato, a partire dalla sua presunta misurabilità, come movimento della storia lungo una linea. Linea che ha trovato la sua figura nell’albero genealogico, in particolare con i concetti di discendenza e di successione tra padre e figlio, che servono a situare gli umani in un rapporto. Padre e figlio, maestro e allievo, padrone e servo vengono inscritti in una scala gerarchica, a cui il dire e il fare dovrebbero sottostare. Tanto che, secondo tale logica, l’autorità e la responsabilità non concernerebbero ciascuno, ma sarebbero assegnate, di volta in volta e a livelli differenti, a qualcuno, a seconda del posto che occupa nella società. In questo modo, il nuovo che avanza, come detta la formula, è considerato un bene dal figlio, dall’allievo e dal servo, che sono in cerca di riscatto, e un male dal padre, dal maestro e dal padrone, che usano l’arma del ricatto per procrastinare la presunta fine del “loro” tempo: ognuno stia al proprio posto se vogliamo che tutto ritorni. È questa l’economia del sangue su cui si fonda l’economia della morte. Anziché la modernità come modo del tempo, allora c’è l’eterna lotta fra l’antico e il moderno, come conflitto fra il padre e il figlio, fra il bene e il male. Se il padre e il figlio vengono situati nella genealogia, non avranno altro destino se non quello di entrare nel conflitto dialettico da cui usciranno vincitori e vinti – il male, l’ultimo minimo male, sarà necessario al raggiungimento del bene –, ma da cui sorgerà una sintesi superiore corrispondente al risultato prospettato dall’idea di evoluzione e progresso. Quello che prima si poteva appena immaginare, poi, sarà reso possibile, sarà realizzato. Nell’idea di tempo che passa e che scorre, moderno è ciò che va “sempre più” avanti, ciò che fa un passo in più rispetto a ciò che c’era prima, mentre classico è tutto ciò che rimane fermo in una sua presunta staticità.
Ma il tempo, con il suo passo e il suo piede, non passa e non scorre. Il prima e il dopo presuppongono un tempo come durata, un tempo rappresentabile nello spazio, ancora una volta, debitore della linea. Mentre la classicità è da conquistare, come dice Armando Verdiglione, mettendo in discussione un canone del discorso occidentale che ha imperato in tutti gli ambiti: dalla filosofia alla poesia alla letteratura alla scienza all’economia e al diritto. Ciascuno, divenendo dispositivo intellettuale, è moderno e tende al classico, in quella tensione, in quella rivoluzione che non è rovesciamento del negativo nel positivo, ma il rivolgersi delle cose alla loro qualità. Quale carta della modernità potrebbe redigere chi si pone come artefice di una rivoluzione che parte dall’idea di fine del tempo, dal presupposto che, per essere moderni, occorra superare gli antichi? La modernità è della parola, non del soggetto, e padre e figlio esistono nella parola, non sono soggetti che si contendono il primo posto. Il padre esige la funzione di nome e il figlio la funzione di significante. Il dispositivo intellettuale non può prescindere da queste funzioni – parricidio e figlicidio non transitivi –, in cui il padre non uccide il figlio e il figlio non uccide il padre.
Il dispositivo intellettuale è dispositivo di valorizzazione della memoria, senza la dicotomia tra il passato e il presente, tra il presente e il futuro. Niente è presente nei dispositivi che si costituiscono nella famiglia, nella scuola, nel lavoro, nell’impresa. Niente è presente, niente è passato, e il futuro, anziché essere dinanzi, è ciò da cui le cose procedono, il futuro come modo dell’apertura, da cui procede l’avvenire, che è sempre in atto. L’avvenimento e l’evento contribuiscono a scrivere la carta della modernità. Con l’avvenimento e con l’evento la città è costituita dal fare e dal suo ritmo – il ritmo delle cose che si fanno e giungono a scriversi – e è città secondo l’aritmetica, città del tempo, anziché degli spazi da spartire secondo l’algebra o la geometria, città, dunque, non più basata sulla divisione sociale e sessuale, ossia sul conformismo politico, sui cosiddetti rapporti di potere, sempre pronti ai cambiamenti, purché nulla incontri la trasformazione.
La città in cui si scrive la carta della modernità non è la città in cui l’antico lascia il posto al nuovo perché tutto ritorni, non è la città della restitutio in pristino, ma è la città della restituzione in cifra e non ha bisogno di difendersi dalla novità, dallo straniero, dall’ospite, dalla sessualità come politica del tempo che non finisce. Già in Platone, la sessualità, anche se non era chiamata così, era la malattia mentale dell’ultimo uomo, dell’homo modernus. L’uomo moderno come il pericolo giallo, il pericolo della differenza sessuale, della differenza che procede dal fare e dalla sessualità (e non viceversa). Padre e figlio, dunque, non rappresentano la differenza – e così maestro e allievo, uomo e donna – e non si situano in un rapporto, ma sono funzioni della parola (funzione di nome, il padre, e funzione di significante, il figlio) nella cui intersezione c’è la funzione di Altro. Senza il parricidio come funzione della parola, non c’è sessualità, ma cortocircuito delle cose che rimangono ancorate al fantasma del rapporto come fantasma di padronanza: ognuno scambia la propria impresa di vita con la lotta per il puro prestigio; e ognuno, in questo modo, si preclude il fare e pensa alla morte, la cosiddetta padrona assoluta, che livella ogni differenza. Non a caso Armando Verdiglione, invece, definisce la morte come indice della differenza sessuale, la differenza temporale irrappresentabile che ciascuno incontra facendo.
Facendo, ciascuno scrive la carta della modernità, che non è la carta dei diritti dell’uomo, sempre pronta a giustificare illuministicamente ogni massacro, ogni ghigliottina, in nome del bene, ma la carta del diritto dell’Altro.