LE DONNE E LA SCIENZA DELLA PAROLA
L’irruzione delle donne nel primo rinascimento procede dall’oggetto della scienza, come scrive Armando Verdiglione nel Giardino dell’automa (Spirali). Con la sacra rappresentazione, con il carnevale sono aboliti la segregazione e i concetti di gregge, di popolo e di soggetto collettivo che avevano bisogno delle donne come segni della differenza sessuale e sociale.
L’oggetto della scienza, da Leonardo da Vinci in poi, impedisce di chiedersi ontologicamente “Che cos’è?” e, quindi, “Che cos’è la donna?“.
Chiedersi quale sia l’identità delle donne non s’inscrive nella scienza della parola, ma nel discorso scientifico, nei postulati della logica predicativa che Aristotele esigeva come condizioni di obiettività. La scienza che viene inventata nel primo rinascimento, come poi la scienza della parola, la cifrematica, dà adito non alla casistica, ma al caso clinico, al caso di qualità.
Il peccato originale, quello di cui si sarebbe macchiato Adamo, su istigazione di Eva, faceva della donna il segno del male da economizzare, male come minimo comune necessario alla procreazione. Con la scienza della parola, le donne invece sono assunte in cielo, sono senza peccato. Nella pulsione sessuale, pulsione intellettuale, bene e male sono ossimoro, modo del due da cui procedono le cose. Allora, non c’è più la caduta dal paradiso terrestre come pena per avere scelto il male.
L’amor cortese non giunge a assumere le donne nel cielo perché poggia sull’omaggio alle donne: ancora una volta, le donne da amare con un amore ideale perciò impossibile, altra faccia dell’esorcismo dell’oggetto che, tolto, diviene l’Altro positivo o negativo, animale fantastico anfibologico, rappresentazione del bene e del male, rappresentazione della differenza.
Il discorso scientifico dice che l’oggetto è preso, o da prendere, e il soggetto è colui che prende. Nella scienza della parola, l’oggetto, proprio in quanto imprendibile e inafferrabile, è condizione della scienza. In virtù di questa scienza le donne non sono prendibili, cioè sottoponibili a possesso o proprietà, non sono più al posto dell’oggetto, tanto meno devono rispondere all’obbligo morale di divenire soggetto: sarebbero confermate in uno statuto ontologico, sempre quello che procede dalla domanda del discorso scientifico “Che cos’è?”. Già con il primo rinascimento, ma ancor di più con la scienza della parola, si tratta di divenire artista e scienziato della parola, statuto intellettuale, non statuto sociale, per donne e uomini che non hanno un prezzo e non sono appesi a un albero genealogico in attesa di saltare dall’albero più basso a quello più alto, di trovare un posto dove stare a proprio agio. Tanto più perché il disagio è strutturale, anzi, è proprio ciò per cui avviene l’introduzione delle cose nella parola.
Nel testo di Leonardo da Vinci, la donna interviene come invenzione e come arte, non deve più dividersi tra il sacro e il profano, il festivo e il feriale, la madre e la prostituta. Favorire lo statuto intellettuale delle donne comporta la sessualità come politica del tempo che non finisce, quindi, il fare che approda al piacere e con esso la dissipazione di un altro interrogativo ontologico che ha contribuito alla rappresentazione della differenza: “Come gode la donna?”.
La differenza non è la differenziazione di due unità sottoposte al principio d’identità, ma la differenza di ciascun elemento da se stesso e la differenza sessuale, differenza che è instaurata dal fare, quando la piega (piegare, plicare in latino, klinein in greco) della parola enuncia una clinica senza patologia, che trae l’arte e l’invenzione verso la cifra, anziché prestare il fianco alle professioni e alle confessioni che prosperano sulla rappresentazione del male dell’Altro, fino a eludere il caso di qualità attraverso la credenza nel caso patologico, per di più qualificandolo come risultato della ricerca scientifica.
E non è raro il luogo comune secondo cui le donne sono sempre casi patologici, prese nei loro sentimenti, nel loro pathos e nelle loro passioni, una via di mezzo tra le sante e le streghe. La scienza è la presa della parola, tanto che nessuno può essere preso, nessuno può immaginarsi, rappresentarsi, credersi. Tanto meno le donne.
Credere di sapere che cosa vuole la donna implica l’assenza di scienza, proprio perché nega l’inafferrabilità dell’oggetto scientifico. Che cosa vuole o che cosa non vuole. La medicina, arrovellandosi intorno al primo interrogativo, doveva stabilire come gode la donna – quindi, in che modo è possibile rinunciare al godimento, attraverso la sofferenza, fino al sacrificio o rimandarlo in attesa di un godimento divino. La morale, nel tentativo di disciplinare il desiderio, ha fatto del secondo interrogativo il suo cavallo di battaglia. Interrogazioni chiuse in entrambi i casi, in cui la donna, come nella dialettica hegeliana servo-padrone, è funzionale al cerchio e alla circolazione sociale e politica. Ancora una volta, in assenza di scienza, prevale il tentativo di prendere le donne nell’alternativa tra positivo e negativo, superiore e inferiore, bene e male. Nella scienza della parola le donne non significano, ma hanno la chance di giungere alla cifra, lungo il viaggio della vita che si fa di arte e d’invenzione. Ciascuna donna non significa perché il tempo del suo viaggio è il tempo del fare, in cui la finanza induce le cose alla conclusione e alla scrittura, non alla fine.