GLI IMPEGNI: OPPORTUNITÀ O LIMITE DELL'IMPRESA?

Qualifiche dell'autore: 
docente della London Business School

Come accade che anche aziende di grande successo, a un certo punto incappino in un blocco da cui faticano a uscire?

Ci sono dei miti, delle risposte facili, che si danno per cercare di spiegare perché le società hanno dei crolli. Il primo mito dice che l’azienda non ha voluto vedere l’inizio dei cambiamenti, come lo struzzo che mette la testa sotto terra. Il secondo mito racconta di un’azienda che ha fatto come il cervo, che si blocca davanti ai fari anteriori di un’auto, resta fermo e non si sposta. Il terzo mito dice che i manager sono degli idioti. Il quarto mito che i manager sono dei delinquenti. L’esempio per tutti è quello della Emron, o anche della Parmalat. I giornali amano mostrare le immagini di manager che, mentre vengono portano via ammanettati, si coprono il volto. Ma solo il 5-10% delle società che hanno avuto un crollo lo hanno avuto per questo motivo. Molte volte erano dirette da persone oneste. Il quinto mito è il destino. Ci sono settori industriali poco redditizi e le ragioni di questo scarso successo si attribuiscono proprio al destino. Ad esempio, l’industria del cemento, il cui trasporto è molto lento e ha incontrato grossi problemi tecnologici. Così come quella dell’acciaio. In entrambi questi settori però ci sono stati tanti problemi, ma anche tanto successo.

I miti sono spiegazioni facili. Invece bisogna dare una spiegazione basata sulla realtà. Questa spiegazione è che i manager si fanno bloccare dai loro stessi impegni.

Che cosa intende per impegni?

Intanto vediamo che cosa sono gli impegni teoricamente e poi arriveremo alle applicazioni pratiche. Come mai le imprese vanno bene? Grazie agli impegni. Gli impegni sono ciò che determina il successo di un’azienda. Un impegno è un’azione che un manager assume nel presente e che blocca l’azienda in una traiettoria nel futuro, ad esempio, negli investimenti in una linea produttiva di un marchio, che comporta disinvestimenti per concentrarsi in una attività.

Vediamo qual è il senso di un impegno e poi in che modo esso blocca l’azienda verso il futuro. Gli impegni si dividono in una serie di categorie.

La prima è quella degli “studi strategici”(o quadri), cioè cosa vediamo quando guardiamo il mondo, come definiamo il nostro settore, chi sono i principali concorrenti, la nostra strategia sul mercato, i clienti fondamentali.

La seconda categoria è quella dei “processi”, come si fanno le cose nella nostra azienda. I processi hanno a che fare con le decisioni, la produzione, ecc. e possono essere sia formali che informali.

La terza categoria è quella delle “risorse”. Le cose che possediamo e che ci aiutano nella competizione. Possono essere il marchio, le risorse tecnologiche, quelle umane, i nostri collaboratori, ecc.

La quarta categoria è quella delle “relazioni”, cioè i legami di lungo termine. In che modo strutturiamo le nostre relazioni, sia quelle interne, quindi l’organizzazione dell’azienda, sia quelle esterne, ad esempio i fornitori, i distributori ecc.

La quinta categoria è quella dei valori che ci uniscono, c’ispirano, e ci dicono chi siamo noi e chi loro.

Queste categorie d’impegno sono vincolanti e ci bloccano per il futuro. Sono interrelate e si collegano tra loro articolandosi l’una con l’altra.

Quindi, per raggiungere il successo occorre che: 1) ogni categoria di impegni sia in linea l’una con l’altra, rinforzandosi a vicenda; 2) ogni categoria di impegni sia in linea con l’ambiente esterno.

Qual è l’apporto che la cultura e l’informazione possono dare all’impresa? In che modo la cultura e l’informazione possono contribuire a creare nuovi impegni, a accorgersi che l’ambiente sta cambiando?

Ci sono vari tipi di cultura: c’è la cultura nazionale, la cultura industriale, la cultura della città in cui ci troviamo, quella aziendale. La prima cosa da fare è capire di quale cultura stiamo parlando. La cosa più importante è che tutti questi diversi livelli di cultura non si sovrappongano e non crollino uno sull’altro. Per il resto, è un vantaggio avere culture di tipo diverso, è naturale che questo può aiutarci a ampliare il modo in cui vediamo le cose e, di conseguenza, anche a vedere più chiaramente le opportunità e i rischi. Quindi, è importante che la cultura nazionale, quella industriale e quella locale abbiano radici e scopi diversi.

L’eccessiva specializzazione non rischia di fare fossilizzare l’impegno del manager e delle risorse umane di un’azienda, a cui invece è richiesto sempre di avere diverse conoscenze?

Sì, in effetti, la specializzazione rende più complesso uscire dalle relazioni che è necessario creare attraverso partnership per poter essere competitivi. Quindi, più si è specializzati più si ha bisogno di creare dei cluster e più è difficile poi riuscire a districarsi dalle relazioni che si sono create.

Effettivamente, la cosa più importante che chiedo di fare ai manager non è concentrarsi su ciò che pensano della propria impresa ma cercare di capire che cosa per esempio un imprenditore cinese può pensare della loro impresa o un’azienda privata può pensare della loro impresa, oppure qualcuno di un settore esterno. Dobbiamo cercare di ampliare il modo di vedere la nostra impresa e, eventualmente, cercare di fare dei piccoli esperimenti al di fuori dei nostri core business, dei valori fondanti, delle attività su cui incentriamo maggiormente la nostra azienda, fare piccoli esperimenti e vedere poi, nel momento in cui cambia l’ambiente, come possiamo eventualmente costruire, su questi piccoli esperimenti che abbiamo fatto, nuovi core business, naturalmente ampliandoli.

Visto che stiamo parlando di cultura e di storia, questo procedimento che ho illustrato prima è un po’ come quello che aveva fatto Costantino che voleva conquistare Bisanzio per avere una possibilità, se fosse accaduto qualcosa di drammatico a Roma, di avere una seconda Roma. Anche le imprese dovrebbero cercare di costruirsi appigli esterni in modo da poter riversarsi in maniera quasi barbara su qualcosa su cui hanno già investito precedentemente.

Anche rispetto alla Cina, possiamo dire che ci sono due culture che s’incontrano. In che modo l’impresa italiana può riuscire a imparare da quella cinese e viceversa?

Dovrebbe essere assolutamente obbligatorio per ciascun manager italiano trascorrere almeno una settimana in Cina. Una volta che un manager italiano andasse in Cina e si rendesse conto che i manager cinesi e i cinesi in generale lavorano novanta ore la settimana, che riescono a copiare le migliori tecnologie, i migliori prodotti – forse non li producono loro per primi ma sicuramente li sanno copiare, quindi, li conoscono –, che hanno una crescita enorme per quanto riguarda la quota di mercato, e molti di loro si sono formati magari negli Stati Uniti o in Europa – quindi sono in qualche misura globalizzati fin dall’inizio –, allora saprebbero che cosa hanno di fronte, saprebbero come comportarsi per le sfide del futuro.

Sicuramente, anche i cinesi hanno qualcosa da imparare dagli italiani, ma forse non è questo il momento giusto, in realtà quello che potrebbero imparare è avere informazioni, per esempio, sul concetto di marchio, che i cinesi fondamentalmente ignorano, come pure ignorano – questo è un aspetto molto importante – il design in termini di stile di vita. Fra un po’ forse le persone si stancheranno di avere oggetti a basso costo, di comodo uso ma che non rappresentano uno status symbol, non evocano un ambiente elegante, da Dolce Vita, sono semplicemente funzionali ma non attraenti, di conseguenza, a un certo punto, da questo potrebbe nascere l’interesse della Cina per la cultura occidentale. Per esempio, non tanto tempo fa ho visitato un’azienda di prodotti tessili in Cina e le loro pubblicità erano abbastanza ridicole se comparate alla raffinatezza della pubblicità a cui siamo abituati noi.