FRASNEDI: PRIMI ELEMENTI DELLA SCENA
Nel catalogo di Alfonso Frasnedi, La materia della felicità. Il contrasto, il dibattito, la tranquillità (Spirali, 1998), troviamo il Progetto di una domenica fra gli alberi, un’analisi dell’impossibile della sintassi e del movimento. L’opera è surdeterminata e l’analisi non si arresta al movimento: in una deriva, in uno scarroccio, in una bolina, siamo forzati controvento.
Una partitura, su due bande o righi di uno spartito musicale della pittura. Il rigo superiore è mosso da una nuvolaglia inquieta, con varie note d’albero. È un rigo di musica, un polo di colore su una tenda, che da poco si è alzata o che va abbassandosi lentamente. Un riparo discreto necessario alla scena, che si mostra incerta, in un pallore che diviene ingenuo, sotto questo mezzo sipario di verecondia.
Una misura obbligata, per leggere un’opera, che d’inverecondia era parsa trionfare. Come leggere il Déjeuner sur l’herbe di Manet, del 1863 (una ripresa di un Giorgione o di un Tiziano del 1510, il Concerto campestre), sulla traccia di un impossibile originale? E la lettura, dunque seconda, rende classica la scena: due uomini e due donne, ostentate completamente nude anche nell’opera del cinquecento, relegati, i quattro, finora, in un campestre di alberi e di erbe, protoarcadico per Giorgione e protoimpressionista per Manet.
Ai tempi, con il Déjeuner, il nudo introdusse un taglio temporale e un punto di scandalo, poiché “prima” di Manet, le due donne nude del Concerto del cinquecento, che erano lì già da oltre tre secoli, apertamente esposte al Louvre, non erano uno scandalo per nessuno, mentre, “dopo” Manet, le sue due donne, altrettanto nude, suscitarono un terremoto d’insulti e sberleffi all’indirizzo del pittore, nella Parigi pur vantata illuminista.
Con il déjà vu dei due presunti originali in backstage, Frasnedi gioca ora una scena scissa in due, come per una sfida alla ricomposizione, che avverrebbe abbassando la “tenda” degli alberi, o sollevando la “scena” dei vestiti e svestite. E, mentre per Manet l’opera di Giorgione o Tiziano fungeva da ispirazione, Frasnedi ne elabora la scena, estraendone il vero e proprio tipo, il tipo “Déjeuner sur l’herbe di Manet”, in una sua tipografia della luce. La scena è ora come scolorita, in una materia dall’apparenza di sbiadita celluloide, che abbia perso i toni di fuoco del colore, i quali restano scritti in alberi come note musicali, ospiti in uno stracielo d’idee platoniche, traviate e turbate dalla violenza del colore, mentre gli alberi hanno perso il tipo, stilizzati come una serie di timbri.
L’opera non è divisa in due, ma è divisa da sé e può leggersi in modi differenti: si mostra tagliata, secondo due veli, da una lama che ne abbia scisso il film, di piatto, nel piano del foglio, lasciandone una scena e un’altra scena, come se l’artista avesse incollato un adesivo sulla pittura, ancora fresca, e lo avesse poi sollevato lentamente, portando via, fra gli alberi, gran parte del colore.
Il sipario sollevato rende formale la costruzione di una scena di teatro, ma, nella scena delle immagini, c’è ora un due, un sopra e sotto, un dentro e fuori, che, sulla traccia dell’apertura, fornisce il rilievo inconciliabile della scena originaria. Scena, questa, che non è delle immagini, ma Urszene, come la chiamava, senza averla vista, Freud. Scena originaria, proprio perché, oltre alla tecnica, oltre all’arte, l’opera presenta questo aspetto della macchina, individuata in un aspetto particolare, la macchina teatrica delle immagini nella funzione scenica.
Ma ecco un altro aspetto della macchina, accanto e sotto la tenda del teatro, nell’impertinenza dello specchio di uno stagno. La scena delle immagini non è più il palco di un teatro, ma la scena del cinema, la suggestione di un Narciso, che si sporge nell’acqua, per cercare, sul fondo, la prima bagnante e, più in basso, i due gentiluomini e la fanciulla lontana, in camicia. Nello specchio, l’Urszene si allontana, sta sulla riva dello stagno, invisibile se non per un riflesso. E un riflesso di un altrove è l’abbaglio delle figure degli alberi, immersi in un liquido di rubino, di vinaccia e di alga.
Vacua nel colore specchio, baluginante nella punteggiatura, l’immagine risale dal fondo e risalta sulla superficie dello stagno, che la lascia intravedere come scolpita nella roccia di un’acropoli babilonese o evanescente in un’atmosfera di tramonto o di alba. L’inganno delle immagini affida le due parti a una presunta prospettiva e la punteggiatura dei sassi trae lo sguardo sul fondo dello stagno, mentre dà agli alberi un secondo piano, fuori dal tempo e dallo spazio.
Il va e vieni porta al proscenio un gruppo campestre, che vive ancora nel dipinto originario, mentre gli alberi arretrano, immersi nella più remota antichità. Avviene come per un taglio temporale, di cui troviamo anche un indizio: la scena, ora quasi immersa nello stagno, è frutto di una violenza, di un taglio, che ha tolto dalla figura del Déjeuner sur l’herbe la parte al di sopra della ragazza china, che, come un Atlante, serve ora a contrasto del calo della tela.