L'IMPRESA TRA CULTURA E ETICA
Nel mondo dell’impresa siamo tutti apprendisti, cerchiamo sempre di seguire come cambia, per effetto della globalizzazione, e come interagisce nello scenario mondiale. E cambiano anche i rapporti nella società in cui è radicata. In particolare, l’impresa italiana, nonostante abbia rapporti internazionali, rimane legata alla sua nazione poiché in essa risiede il suo gruppo dirigente, il suo “cervello”.
Avrete notato che oggi l’impresa si serve molto di più di attività e di prestazioni esterne: servizi finanziari, legali e commerciali. Ma il punto centrale è che questo fenomeno non è propriamente quantitativo, bensì estensivo, coinvolge tutta la società e le professioni convergenti nella produzione e nella commercializzazione di prodotti, beni e servizi.
Questo problema di estensività, che potremmo denominare socializzazione della produzione, ha un’incidenza sull’organizzazione dell’impresa e sulla sua posizione nei confronti della società. Un tempo, infatti, la responsabilità dell’impresa verso la società riguardava esclusivamente il risultato economico, essendo l’impresa chiamata a rispondere quando si manifestavano malfunzionamenti come illeciti economici, bancarotta o fallimenti. La responsabilità era concentrata su questo aspetto poiché l’imprenditore era produttore all’interno di una società organizzata secondo criteri molto diversi da quelli dell’impresa.
Oggi, invece, si parla sempre più spesso di responsabilità dell’impresa non soltanto in ambito economico, ma anche sociale. E questo non è un trend temporaneo, ma è nato dall’assetto stesso del mercato e dall’orientamento delle imprese: al loro interno, infatti, sono sempre più frequenti i cosiddetti ethic-offices, uffici che controllano i comportamenti etici all’interno dell’azienda, e spesso, nel consiglio di amministrazione, sono presenti personalità indipendenti dall’azienda. Attualmente, inoltre, tra l’organizzazione sociale e l’impresa c’è un rapporto diverso: quello che, un tempo, era indicato come un rapporto di separazione, oggi è diventato un rapporto d’integrazione funzionale. È un rapporto biunivoco, poiché non solo la società influenza l’azione dell’impresa, ma anche quest’ultima, avendo una ricaduta sociale, ha effetti sulla prima assumendo la responsabilità di ciò che fa. È un fenomeno di cui si discute dall’inizio del novecento, da quando hanno incominciato a nascere le grandi imprese, e che ora abbraccia l’intero campo della produzione economica.
Questo grande cambiamento ci porta a un altro aspetto strettamente correlato: il rapporto tra impresa e cultura. Nel passato, l’impresa si serviva della cultura in modo molto episodico, contribuendo alla sua diffusione quasi esclusivamente nel ruolo di sponsor. Ora, invece, la cultura è intesa non come elemento destinato a un’elite, bensì come strumento per la comprensione della realtà umana, di ciò che sta intorno all’uomo. Tale accezione ci rende tutti portatori di cultura in quanto capaci di comprendere il senso delle cose e dei processi reali, ed è fondamentale anche per l’attività imprenditoriale, poiché un imprenditore sceglie di produrre determinati beni e servizi cercando d’interpretare i bisogni della realtà circostante.
Se la cultura è un elemento essenziale per l’impresa, anche l’impresa è diventata un elemento di cultura: oggi, sempre più, le persone tendono a ragionare come imprenditori. La massimizzazione degli utili e la programmazione delle attività sono aspetti di un modello di comportamento sociale a larga diffusione: fin dai primi passi della propria educazione, un individuo deve fare i conti con ciò che vuole fare in futuro e programmare la propria formazione di conseguenza.
Il rapporto tra cultura e società trova un ulteriore aspetto problematico nella constatazione che non esiste più una cultura di riferimento, la comunicazione ha assunto un carattere mondiale e ogni società deve aprirsi alle altre culture e comprenderle per potere sviluppare e dare maggiore forza alla propria: questo processo esige anche dall’imprenditore un’apertura maggiore, poiché la comprensione dell’altro diventa prerogativa fondamentale per la comprensione e la realizzazione di sé.
In relazione a questo cambiamento epocale, la cultura d’impresa italiana ha ancora qualche handicap: non si è ancora pienamente liberata di modelli antiquati, che non possono più trovare applicazione nello scenario attuale. Primo fra tutti, un atteggiamento che rifiuta le novità, frutto di una figura imprenditoriale che non comprende l’assetto attuale del mercato e provoca danni alla stessa società in cui opera.
Anche su altri fronti troviamo un ritardo culturale nel comprendere le novità di mercato. Esempio eloquente è la contrapposizione delle figure di padrone e salariato, spesso in lotta per problematiche che possono sintetizzarsi in una diminuzione del potere reciproco, mentre un’analisi più attenta coinvolgerebbe prospettive ben più complesse.
Infine, i maggiori ritardi di comprensione si ritrovano a livello politico, dove non c’è la volontà di creare un ambiente favorevole alle imprese nazionali, indispensabile a un loro inserimento nell’economia mondiale. Infatti, il pensiero generale è che la globalizzazione sia soltanto una nuova distribuzione della ricchezza, mentre i fronti di questo trend investono, in prima istanza, una nuova distribuzione del lavoro mondiale, al cui l’interno va compreso il ruolo della nostra nazione.
Questo è un problema che esige una notevole cultura dai nostri politici, non riguarda le singole imprese: il dramma è che non solo non viene affrontato, ma non è nemmeno posto: la politica lascia le imprese sole.
Di conseguenza, può rilevarsi un sempre più frequente trasferimento all’estero di alcuni reparti di un’azienda, se non dell’impresa tout court. In conclusione, l’unico modo per rafforzare le aziende italiane sarebbe la creazione di un ambiente favorevole al fiorire dell’impresa.