SÌ ALLE REGOLE, MA ANCHE AL TALENTO
Tutti noi siamo abituati a parlare dei nostri diritti, che ciascuno tende a promuovere al massimo. In questo convegno, si parla di diritti di un contesto, di diritti di un fabbricato rispetto alla propria natura, alla propria essenza. E sono due concetti molto differenti: un conto sono i diritti sui fabbricati, che, con arroganza spesso, le imprese per prime, ma anche gli utilizzatori, coloro che li vivono, tendono a affermare, come il diritto di avere la scala, di allargare la camera, di mettere la finestra nel sottotetto; un altro conto sono i diritti di cui parla Massimo Mola nel suo libro Come ascoltare gli edifici, i diritti di qualcuno che non ha la parola e però, forse proprio per questo, proprio perché non può esprimersi, merita un rispetto ancora maggiore.
La prima considerazione è che questa esigenza di ascolto riguarda sopra tutto quegli edifici, quei contenitori, quei manufatti che hanno una particolare storia, non necessariamente dal punto di vista dei contenuti storico-artistici, ma tutti quelli che concorrono, attraverso la loro immagine e la loro funzione, a farci ricordare la storia di una città. Che un palazzo come questo (Cappella Farnese, Municipio di Bologna) meriti delle norme e un’attenzione di un certo tipo è palese. Lo è un po’ meno il fatto che anche una strada minore di Bologna, tuttavia carica di storia e di memoria, meriti analoghi diritti.
Bisogna dire che il nostro governo, di qualunque area politica fosse, non ha mai avuto una grande sensibilità, perché magari dove c’erano i templi sono state costruite le acciaierie o altri fabbricati ancora più dirompenti. Dal punto di vista economico, non siamo mai riusciti a valorizzare la nostra nazione come il patrimonio ci avrebbe permesso e, per di più, in molti casi non abbiamo contribuito a quella sensibilità della conservazione del bene che invece esso meritava. Sembrerà banale dirlo, ma quando andiamo all’estero, sopra tutto negli stati più giovani, ci meravigliamo perché il primo rudere di cinquanta, cento anni fa, viene messo sotto teca, analizzato e si fa pagare il biglietto per visitarlo. Basta passeggiare per qualunque città italiana per vedere ogni cento metri monumenti dalla bellezza inenarrabile lasciati incustoditi e magari deturpati. Allora, occorre la sensibilità, non tanto e non solo dei cittadini, ma sopra tutto di chi ci governa, che dovrebbe abituarci a valorizzare questi beni, anche solo per motivi economici, perché possono generare un profitto.
Anch’io sono a favore della città come museo aperto, perché l’abilità di imprese, professionisti e intellettuali sta nel saper conciliare ciò che abbiamo – che è importante e difficile da manipolare – con le funzioni di qualunque città italiana odierna. Quindi, credo che dobbiamo conciliare il rispetto del bene con gli usi che di esso si possono fare. E qui voglio dire che non è solo un problema di norme, perché le norme sono utili, indispensabili ed esaustive nel momento in cui si parla di cose ad altissimo contenuto tecnologico. Quando parliamo dell’impianto, quando parliamo della salute pubblica, parlare di parametri standard è abbastanza facile perché sono riferimenti scientifici oggettivi. Ma se noi dovessimo scrivere nero su bianco come affrontare la conservazione, per esempio, di questo palazzo, e dovessimo sancire punto per punto i materiali e i tipi di utilizzo, credo che questa sarebbe una norma impossibile, perché nell’utilizzo e nella conservazione di beni artistici c’è una componente umana, di chi conosce quel mestiere, quell’attività e quei criteri intellettuali, molto marcata. Questo non vuol dire che le norme non debbano esserci, però, se noi dovessimo codificare per sempre cosa si può fare o cosa non si può fare in questa sala, credo che anche il più bravo legislatore rischierebbe di pronunciare qualche inesattezza. Nell’ambito impiantistico e tecnologico le norme sono requisito necessario e sufficiente a generare buoni progetti e buoni interventi, ma, nell’ambito del restauro, della conservazione e del recupero, a queste norme, che sono indispensabili, devono aggiungersi uomini del mestiere, imprese del mestiere, nella maniera più competitiva e allargata possibile, e la stessa cosa vale per i professionisti e i normatori.
Permettetemi ora di fare un esempio, anche a titolo personale. Vorrei dire qualcosa dell’intervento di restauro che la mia azienda, la Montanari S.p.A., ha eseguito in questa sala, al di là del fatto che possa piacere o meno, non sta a me giudicarlo. Fu fatto senza prescrizioni, non c’erano norme che obbligassero a utilizzare alcuni materiali anziché altri, e il normatore di allora, il certificatore e il progettista avevano questo tipo di sensibilità. Non mi dilungo su materiali e tecnologie che sono quelle d’epoca. L’ottanta per cento del legname che vedete sopra la vostra testa è nuovo, ma è stato usato legno antico, proveniente da precedenti smontaggi, recuperato e trattato in una certa maniera. Ma non c’è una regola che dica che il colore o il legno debba essere di un certo tipo, qui interviene la sensibilità e l’intelligenza di chi ci lavora.
Per concludere, vorrei affrontare il tema delle periferie nell’urbanistica. Io ho studiato architettura a Firenze e mi è sembrato di capire che esistono due tipi di urbanistica: una vera e l’altra fasulla. Quella vera cerca di capire le esigenze dell’uomo e di tradurle in progetti, l’altra, invece, in maniera più arrogante e meno dedita all’ascolto, desidera pianificare quanti figli deve avere una famiglia, di quanti componenti deve essere, se è meglio che abbia il cane o il gatto. In Italia, le scuole di urbanistica sono per il settanta per cento di questa seconda categoria, tutte estremamente politicizzate, e hanno dato i frutti che abbiamo visto. Quando si parla di periferie, gli obbrobri che abbiamo anche dalle nostre parti hanno dietro il nome di architetti, non sono state progettate da venditori di bulloni, ma da architetti spesso illustri e che oggi si scandalizzano per bagatelle che sono nulla rispetto agli scempi che hanno fatto loro.