LA PROPRIETÀ DEGLI EDIFICI

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Qualifiche dell'autore: 
cifrematico, brainworker, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Il convegno Come ascoltare gli edifici (Cappella Farnese, Municipio di Bologna, 20 aprile 2006), di cui pubblichiamo in questo numero ampi brani, ha preso spunto dal libro con lo stesso titolo, elaborato da Massimo Mola, che lavora nelle istituzioni che verificano l’applicazione delle normative edilizie e perseguono i reati in questa materia. Il libro è sorto da una conversazione di un giorno e mezzo tra Mola, Armando Verdiglione e alcuni redattori della casa editrice Spirali. Il suo titolo è intrigante: presuppone forse che gli edifici parlino una lingua loro propria, ci raccontino la loro storia, le loro attuali condizioni, le loro esigenze? Crederlo rischierebbe l’animismo. Eppure, come negare che, con i loro muri, pavimenti e soffitti, con i loro vani, le cantine e i sottotetti, con i loro impianti e infissi, siano nella parola, nel racconto, nella narrazione di ciascuno? Essi danno un apporto alla memoria, testimoniano di chi li ha costruiti, restaurati, modificati, fino a chi li abita ora. E alludono al nostro avvenire, cioè attestano di coloro che, costruendo nuovi edifici o restaurando in un certo modo anziché in un altro, danno una direzione anche al nostro abitare futuro e all’edificazione della città. Questione essenziale per la vita di ciascuno, dunque, non solo per chi sia proprietario di magioni o di palazzi, perché ciascun edificio esige da chi vi abita l’attenzione che merita: “Anche un’abitazione di edilizia economico-popolare ha la sua dignità e deve avere il suo rispetto, dato da chi ci abita. Un edificio non può essere continuamente violentato da chiunque solo perché di basso costo. La prima cosa è ascoltarlo: non tanto con le orecchie o con gli occhi, quanto con il cuore”, scrive Massimo Mola nel suo libro. Questione che va affrontata in modo intellettuale, prima che politico e partitico, come attestano gli interventi dell’attuale assessore all’Urbanistica e alla Casa del Comune di Bologna, Virginio Merola, e dell’assessore precedente, Carlo Monaco, entrambi filosofi, forse non a caso.

La nostra rivista ha dedicato due numeri all’ingegneria della città: “La cura della città” (n. 5) e “L’industria, la città, l’ambiente” (n. 11). Con questi dibattiti e con l’esperienza dell’Università internazionale del secondo rinascimento, si tratta d’instaurare il brainworking dell’impresa dell’edilizia, cioè di constatare come oggi l’edilizia esiga il dispositivo di direzione di ciascuno che interviene nella costruzione, nella manutenzione e nel restauro degli edifici: amministratori pubblici, committenti, progettisti, impresari, impiantisti, artigiani, immobiliaristi. Il cervello occorre perché, anche nel cantiere, la complessità dell’impresa giunga alla semplicità che porta alla conclusione: l’Associazione europea dei brainworkers onlus e l’Università internazionale del secondo rinascimento lo hanno verificato anche a partire dall’esperienza dello straordinario restauro della Villa San Carlo Borromeo di Senago, loro sede, che l’ha restituita all’Italia e al pianeta come monumento d’impareggiabile bellezza e unicità.

Questo restauro ha evidenziato che la disposizione all’ascolto delle esigenze strutturali e formali degli edifici esige un’umiltà intellettuale che sospende l’arroganza e l’aggressività di chi pretende di disporre le cose a suo piacimento. Per questo non consente i principi di possesso e di padronanza. Come nota Armando Verdiglione nel libro di Mola, chi si accinge a un restauro deve considerarsi custode più che proprietario, dunque non può fare e disfare a suo gusto, o per mere esigenze di cassa. E non solo perché deve attenersi alle normative. Dell’edificio, infatti, ciascuno è il detentore provvisorio, perché esso resterà anche dopo di lui, è un patrimonio della civitas, che va ben oltre la persona, come avvertono anche gli interventi in questo numero dei più attenti impresari. Si tratta dunque di dare un apporto al viaggio infinito, di mano in mano, di questo bene che non è già un valore, che si tratta anzi di portare a valore. Valore intellettuale, più che immobiliare, perché deve attenersi alle due esigenze essenziali per la qualificazione, quelle dell’ospite e quelle dell’avvenire. L’ospite non è mai già conosciuto e l’avvenire è irriducibile ai criteri del tempo presente.

La dicotomia che spesso interviene tra conservazione e trasformazione degli edifici e delle città si vanifica se la proprietà si attiene al criterio dell’ospite ignoto e dell’avvenire infinito. La stessa proprietà non è il diritto di godimento e possesso sul bene, ma è una proprietà idiomatica del bene, è la sua particolarità in atto, costituita dalla sua memoria, per un verso, e dalla sua destinazione, per l’altro. La proprietà è linguistica, intellettuale. Proprietario allora è chi si attiene alla logica particolare del palazzo o dell’appartamento, è chi avverte che ciascun dettaglio della casa, anche le infiltrazioni e le crepe nei suoi muri, partecipa di una linguistica propria dell’edificio.

Ecco l’ascolto: il proprietario non parla la propria lingua, dà un apporto perché la lingua dell’edificio giunga a scriversi, divenga un testo in cui la memoria e l’avvenire si combinino nella qualità.

La proprietà dell’edificio è la proprietà del viaggio in cui esso s’inventa incessantemente, secondo l’ordine del tempo, come dice Anassimandro. Per questo non c’è più bene immobile, e noi stessi non siamo più immobili, ma viaggiamo a nostra volta ospiti delle case e della città in cui abitiamo, responsabili del loro processo di valorizzazione. Questo il nostro nomadismo, quando la casa propria non è più la propria casa.