QUALCHE NOTA PER GLI IMPRENDITORI
Ringrazio chi ha organizzato questo avvenimento, chi ha contribuito al fatto che si tenesse e poi coloro che sono intervenuti come relatori e che interverranno e alcuni che in particolare sono nostri autori, autori della casa editrice. Ringrazio gl’imprenditori che si trovano qui: questo dà un’occasione privilegiata. Il pretesto è stato dato dal libro di Roberto Ruozi, Il valore dell’impresa. Noi, la settimana prossima, teniamo a Milano Senago un festival della modernità dal titolo Il valore dell’Italia. È una scommessa per ciascuno: una scommessa intellettuale. Qual è il valore intellettuale dell’Italia? Noi ci chiediamo questo. Noi c’interroghiamo: qual è il numero dell’impresa? Qual è la sua particolarità? Qual è la sua logica particolare? Quale la sua struttura? Quale la sua scrittura? Qual è il processo di valorizzazione dell’impresa? Quali sono le proprietà, quali sono i cifremi, le proprietà dell’impresa?
Siccome la distinzione tra arte liberale e arte meccanica è stata abolita da un artista che si chiama Leonardo da Vinci e è a lui, non a un filosofo greco — la filosofia greca ha inventato l’episteme, ma non la scienza —, è a lui che dobbiamo l’invenzione della scienza, perché ha constatato che l’esperienza è originaria, non già secondaria, non già un’applicazione, non già un fenomeno, non già un’apparenza, per cui occorresse cercare al di là dell’apparenza. Il concetto di trasparenza è ontologico. La realtà non conta nulla, l’esperienza non conta nulla, ciascun elemento non è elemento di valore, andiamo al di là dell’esperienza, al di là dell’apparenza. Trasparenza: al di là dell’esperienza, trans-parents, i trasparenti, la trans-parenté, la transparentela. Andiamo a cercare il sistema di filiazione genealogica dell’impresa. Sta qui l’episteme, non la scienza, non quella scienza che è stata inventata da un artista, che ha incominciato a chiedersi qualcosa prima ancora di Platone e di Aristotele, una domanda che sorgeva sul suolo di questa penisola, a Crotone: qual è il numero? Qual è la particolarità? Allora siamo a Leonardo: con lui incomincia la sospensione del concetto stesso di sistema. Il sistema di cielo e di terra di cui parla Aristotele non c’è più. Ciascun elemento dell’esperienza è elemento di valore, non ce n’è uno che abbia minore o maggiore valore. E nell’impresa vige l’infinito attuale, non già l’infinito potenziale. Diceva appunto Galilei che, rispetto all’infinito, maggiore e minore non reggono, la distinzione tra maggioranza e minoranza, tra maggiore e minore non regge. Ciascun elemento è elemento di valore, in assenza della distinzione tra l’arte liberale e l’arte meccanica: la mano è intellettuale, il manuale è intellettuale.
Questa è una lezione che, forse, non è stata mai tratta perché il modo di considerare l’impresa è quello che ci viene attraverso la filosofia della riforma — e Cartesio, dice Hegel, sistematizza Calvino —; oppure attraverso la filosofia illuministicoromantica e Hegel, sempre, dice: “Io sistematizzo Lutero”. È una reazione. L’ideologia di reazione alla modernità, al rinascimento, è l’antimodernità. La modernità, quella che sta conquistando il pianeta e che viene dall’Italia, è l’altro modo, il modo dell’apertura: le cose procedono dal due, dall’apertura, e non dall’uno, dal due e non dall’uno. Se le cose procedono dal due e non dall’uno, procedono per integrazione, non per moltiplicazione né per totalizzazione né per unificazione, Procedono per integrazione: ciascun elemento va in direzione del valore, della qualità, della cifra. Qual è, da una parte, il numero, la particolarità, la logica dell’impresa e, dall’altra, quali sono le proprietà del viaggio, dell’impresa? L’impresa si trova in viaggio: qual è la qualità, qual è la cifra, qual è il valore dell’impresa? L’impresa nel suo viaggio tende e si rivolge verso il valore, il valore non sta prima. Questo valore è il vero capitale verso cui tende l’impresa, non è in partenza, non c’è prima. In principio non era il valore, il valore si acquisisce, si conquista, ma, intanto, questa conquista avviene attraverso i cifremi, attraverso le proprietà, che sono le proprietà intellettuali. Spesso l’approccio all’impresa è ideologico, psicofarmacologico. Per lungo tempo è stato così. A un certo punto, si è passati dall’approccio psicopatologico all’approccio farmacologico: l’impresa è farmaco, rimedio e veleno, positivo e negativo; sicché, ci deve essere sempre qualcosa dinanzi, un’ombra dinanzi, sempre, tra il positivo e il negativo e l’imprenditore deve trovarsi sempre in questa oscillazione, trovare quest’ombra dinanzi e compiere l’economia della morte, l’economia del negativo, l’economia di tutto ciò che va a rappresentare.
Si è discusso molto del brainworking e abbiamo avuto qui Emilio Fontela. Per decenni, tra Chicago e Ginevra, si discuteva di brainworking, ma quel brainworking era semplicemente una ricerca su contratto. Come ci sono banche che fanno artbanking: fanno semplicemente intermediazione, non fanno artbanking, non compiono un vero processo di valorizzazione delle opere d’arte. Lasciano le opere d’arte nello scantinato, le lasciano al porto franco, le lasciano nella cassaforte e, magari, vanno dopo vent’anni e le trovano distrutte. Questo non è artbanking. Qual è il processo di valorizzazione dell’impresa e dell’Italia? Non a caso diciamo questo, perché la modernità viene da questo paese, non da altri paesi. È arrivata dovunque, è arrivata in America, in Russia, in ogni parte, in Giappone, arriva in Cina, arriverà in India, arriverà nell’islam.
Noi abbiamo una mostra che si chiama Donne, le donne negli ultimi tre secoli in Europa e in America. Ma perché diciamo in Europa e in America? Perché non diciamo in Cina, perché non diciamo in India, perché non diciamo nell’islam? Perché le donne, nell’arte, in Cina, in India e nell’islam non ci sono. È un tabù, sono assenti. La questione donne s’instaura tra il Mediterraneo e l’Europa. Noi diciamo “rinascimento”, “modernità”, diciamo “secondo rinascimento”, rinascimento originario: è qualcosa che ha cinque secoli e che ha molta strada ancora, perché, il pianeta, lo ha conquistato, ma ci sono sempre reazioni, ideologie, dittature, pretese egemoniche sull’impresa. E, guarda caso, sono le stesse pretese egemoniche che ci sono sull’arte, sulla cultura e sulla scienza. Pretese assurde, cose dettate dall’idea di padronanza. L’imprenditore non ha più né l’idea di possessione, che è propria della demonologia, demonologia profana, né l’idea di padronanza, che è propria dell’ideologia sacrale. Non ha l’idea di padronanza, non ha l’idea d’impero. Il vero brainworker è lo stesso imprenditore: ci può essere chi si trova come brainworker nella sua impresa e può intervenire rispetto a altre imprese. È colui che non ha da arroccarsi a nessun ricordo. I ricordi pesano. Non c’è un sapere acquisito, non c’è un sapere sull’Altro. L’impresa non si muove come il discorso occidentale, cioè come il pettegolezzo. Il brainworker sospende i ricordi e il loro peso, non è il capitano che affronta una battaglia con il ricordo della battaglia precedente, perché è sicuro che la perde. L’imprenditore si trova dinanzi all’ipotesi dell’avvenire, come deve ciascun giorno proseguire, secondo quale progetto, secondo quale programma. Ma l’approccio psicopatologico o l’approccio farmacologico, coloro che vengono per salvare l’impresa, per trovare la soluzione facile, non badano al progetto, non badano al programma. E quando dicono “strategia” è sulla base di ricordi, sulla base del passatismo. Sono visionari. Ma i visionari, che cos’hanno dinanzi? Hanno l’avvenire? No, hanno il passato. I visionari sono passatisti, sono come quel capitano della nave che ha la testa rivolta all’indietro: non bada alla direzione, alla rotta da prendere rispetto alla direzione. L’imprenditore ha a che fare con i politici, con i banchieri, con i consulenti, ma è lui che assume l’audacia e il rischio: le decisioni, le prende lui. Se si mette a delegare è come colui che crede in Dio e delega Dio per qualsiasi cosa possa capitare. È la stessa cosa come se delegasse il fato: gli capita qualcosa, allora è il fato o il buono o cattivo dio. Il fatalismo è una delega. Non è così, la vita. Qual è il processo di valorizzazione dell’impresa di vita, della vita dell’impresa, della vita dell’imprenditore? Qual è il processo di valorizzazione della memoria? La memoria non è il ricordo. Il ricordo non può stare al posto della memoria. La memoria è arte e invenzione, è gioco e cultura.
Anche tante cose che sono abbastanza diffuse appartengono all’ideologia. Emilio Fontela (quindi il gruppo di Lisbona) ha lanciato il suo manifesto, I limiti della competitività. Ma il concetto di competitività è ideologico, fa appello a quelle religioni e a quei sistemi che si fondano sull’idea di morte, sull’idea di padronanza e, in particolare, sull’idea di morte, rispetto al matricidio, rispetto al padre o rispetto al figlio. Sono le religioni dell’infanticidio. La competitività ha una base che è il fratricidio: è la guerra civile. Ma perché mai un’impresa, che vive d’infinito, che si nutre d’infinito e di eternità (il tempo dell’impresa non finisce), perché mai dovrebbe credere di dovere fare cerchio, di dovere fare un viaggio di ritorno? Ciascuna impresa corre nella sua direzione e, se il suo prodotto è specifico, addirittura unico — non concorrente: unico —, vince la partita. È l’unicum che interessa all’impresa. E l’unicum è senza nessuna concorrenza, senza nessuna competizione, appunto fratricida. Ciascuna impresa è intellettuale, anche l’impresa di chi ha fatto la quinta elementare, di chi non ha fatto studi e riesce a compiere una scommessa e trova l’audacia e trova la direzione.