IL BILANCIO DELL'AVVENIRE
La
scommessa del forum internazionale Il valore dell’impresa è che ciascuno riesca a acquisire
strumenti non solo per analizzare il valore di un’azienda, ma anche per
giungervi, per giungere al valore intellettuale, oltre che economico e
finanziario, il valore come ciò che resta delle cose che si fanno e della loro
scrittura.
Questo
forum sorge anche per indagare dove esistono e quali sono i dispositivi che
giungono al valore, i dispositivi di valorizzazione, e in che modo il progetto
e il programma dell’impresa sono progetto e programma di vita, anziché essere
ispirati all’idea di salvezza. Il valore esige la salute, mentre un’azienda che
punta alla salvezza è un’azienda che si ritiene malata e moribonda. Il processo
di valorizzazione intellettuale oggi è indispensabile per quel salto di qualità
imprescindibile per raggiungere risultati soddisfacenti sui mercati
internazionali.
Ma
non dobbiamo pensare che la vittoria sia lo scopo dell’impresa, l’istanza della
vittoria è nell’incominciamento. Nessuna impresa può avviarsi senza l’istanza
della vittoria, inaugurata dall’autorità con cui le cose incominciano. Tant’è
che il marchio, il logo, il nome potrebbero essere indipendenti dall’azienda,
mentre i prodotti di un’azienda, senza logo, perderebbero il valore che il
marchio conferisce. Dunque, vince chi, procedendo dall’autorità di un nome che
funziona, giunge al capitale, alla cifra, al prodotto estremo, al valore
assoluto. Chi aspetta di avere il capitale per fare ha già perso, confonde il
finanziario con l’economico e nega la materia a vantaggio della sostanza.
Quante
e quali imprese oggi giungono al valore? Come sentiremo dalle testimonianze
degli imprenditori che interverranno a questo forum, se si fossero basati solo
sul capitale iniziale, non avrebbero compiuto un passo. Si sono sempre basati e
continuano a basarsi invece sul bilancio dell’avvenire, dove il racconto
precede il fare, anziché esserne il commento. Il fare non si può raccontare,
sarebbe l’elenco dei fatti, di cui ancora una volta importerebbe la sostanza.
Il racconto invece si fa di sogno e di dimenticanza, due ingredienti
indispensabili all’infinito e all’avvenire. Ciascuna impresa che giunge al
valore è un’impresa che vive di racconto, di sogno e di dimenticanza e ciascun
giorno scrive il suo testo, con la sua lingua, la lingua propria di ciascuna
impresa. Raccontando e narrando il bilancio dell’avvenire, nell’incontro con i
clienti, i fornitori, i collaboratori, gli interlocutori finanziari,
l’imprenditore instaura dispositivi per giungere al valore assoluto.
Eppure,
c’è ancora chi reclama il valore dei fatti a scapito delle parole, salvo poi
lamentare una vita piatta, conformista, dagli esiti prevedibili, in cui non
accade nulla e tutto è già contemplato e contemplabile, comprese le catastrofi.
La paura eretta a sistema fonda il discorso della morte, dove ciò che importa è
la salvezza. Ma salvezza da che cosa? Ciò che si rappresenta come pericolo di
morte, propria o della propria impresa, è la conseguenza della negazione della
difficoltà della parola. Quante imprese si perdono per paura? Ma la paura
fondamentale è la paura di affrontare la difficoltà della parola. E non ha
torto chi avverte tale difficoltà: elaboriamo e troviamo qualcosa in virtù
della difficoltà della parola. Nulla accade senza il fare della parola
originaria, nessuna impresa, nessun viaggio, ma solo la circolarità, la vita
sempre uguale. Per reazione alla parola, sorge l’idea di potere scegliere, come
se ci fosse un’alternativa fra questa vita e l’altra vita, fra le parole e i fatti:
i fatti, necessari per soddisfare i bisogni, e le parole, solo quando i bisogni
sarebbero già stati soddisfatti? Noi pensiamo che questa sia un’alternativa
naturale, ma non è così, basta leggere la Metafisica di Aristotele per rendersi conto
di come questa alternativa – che poi è stata messa in discussione e sfatata da
Leonardo da Vinci e dal rinascimento – sia la stessa che separava le arti
liberali dalle arti meccaniche: “Se dunque gli uomini hanno cercato di
filosofare per dissipare la loro ignoranza”, scriveva Aristotele, “è evidente
che essi non coltivarono con tanto ardore questa scienza se non per conoscere
le cose e non per trarne il benché minimo vantaggio materiale”, come se questo
fosse un peccato. “Tutti i bisogni, o quasi, erano già soddisfatti riguardo
alla comodità e persino ai piaceri della vita, quando sopravvenne il pensiero
di questo genere di ricerca”. Con questa alternativa Aristotele condannava la
parola alla semplice funzione contemplativa, mentre il fare era delegato agli
schiavi, coloro che erano costretti dai bisogni materiali a vivere il lavoro
come una maledizione. Ma perché nei nostri paesi, dove la schiavitù è stata
debellata da tempo e il rinascimento ci ha insegnato che il lavoro manuale è
lavoro intellettuale e non esiste la dicotomia tra chi pensa e chi fa, dovremmo
ancora ripetere luoghi comuni nati oltre duemila anni fa, a opera di una
comunità filosofico-religiosa che voleva salvaguardarsi dagli effetti
imprevedibili della parola?
Allora,
proprio per trovare altri modi per valorizzare l’arte, la cultura e la scienza
di ciascuna impresa, mettiamo a frutto la ricerca di oltre trent’anni di
cifrematica, la scienza della parola che diviene cifra, che diviene qualità,
nonché la ricerca e l’esperienza di chi – filosofo, imprenditore, psicanalista,
economista, brainworker, scienziato – dà testimonianza nell’incontro, dove
la parola agisce. Le cose accadono nella parola e non c’è più da averne paura.