IL VALORE DEL GIOCO, IL VALORE DEL LAVORO
Il mio libro Gioco e lavoro (Spirali) nacque da una conversazione che tenni alla Radio Rai, un giorno di fine agosto, quindi, a ferie ormai concluse. Fine delle ferie significa fine del gioco, fine dell’ozio, e ritorno al lavoro. Sembrerebbe dunque che ci sia un’opposizione tra gioco e lavoro e non tra gioco e ozio, se per ozio intendiamo il non fare nulla e non, nel senso positivo latino, l’operare in modo disinteressato in contrapposizione al negozio.
Naturalmente, non credo che il gioco sia in contrasto col lavoro. Il gioco è una competizione soggetta a regole che possono essere più o meno formali. Se, per esempio, le bambine giocano a fare le signore, le regole sono molto vaghe, nel gioco degli scacchi, invece, sono estremamente precise e formali. Si parla di regole del gioco anche a proposito di qualche lavoro produttivo, oppure a proposito della politica. In alcuni giochi prevale quasi esclusivamente l’abilità e sembrerebbe che la fortuna manchi. Per esempio, sempre nel gioco degli scacchi, l’unica incertezza è stabilire a chi tocchi la prima mossa ma poi tutto può essere previsto. Ed è di fatto previsto da calcolatori molto precisi contro cui ormai quasi tutti i campioni, anche i massimi, perdono le partite. Solo a volte il genio scacchistico riesce a trovare uno sviluppo possibile che l’elaboratore non aveva previsto. Ci sono invece altri giochi che sono aleatori, o semi aleatori, in cui subentra anche la fortuna o il caso. Di questi si è occupato in particolare Pascal, poiché si occupava di calcolo delle probabilità. Leibniz, che conosceva questi suoi studi, diceva che i giochi che dipendono dall’abilità e dalla fortuna allo stesso tempo sono meglio degli altri perché sono più simili alla vita, in cui conta l’abilità ma anche la fortuna.
Il valore di un gioco in genere dipende dalle sue regole. Se inventiamo regole molto efficaci e produttive, il gioco sarà molto fortunato e di grande valore, anche economico: Monopoli, per esempio, era un gioco di abilità che simulava la conduzione delle imprese.
Il gioco, dunque, è interessante e, al tempo stesso, in quanto gioco, dovrebbe essere disinteressato. Ma non è sempre così. Il gioco del dilettante non esige una remunerazione, ma oggi sempre più spesso anche i giochi sono praticati da professionisti, come nel caso del calcio. Ancora durante la guerra, i calciatori erano in teoria dilettanti e quindi lavoravano presso un’azienda: alla Fiat Aeronautica, dove lavoravo allora, c’era un calciatore del Torino, Ellena, che, nonostante naturalmente lavorasse poco in ufficio, ufficialmente era un dilettante. E ricordo che, poco prima della prima guerra mondiale, un olimpionico fu privato del suo titolo soltanto perché aveva ricevuto un servizio da tavola di un certo valore venale. Quando fu fondata la Federazione Italiana Tennis, la FIT, una delle norme prescriveva che i premi dei tornei non fossero in denaro. Successivamente, per qualche anno, hanno convissuto tennisti professionisti e dilettanti, e la Coppa Davis era giocata da tennisti in teoria dilettanti, ma il rimborso spese a volte era talmente elevato che anche i dilettanti guadagnavano, anche se meno dei professionisti.
Il carattere dilettantesco o amatoriale del gioco è importante, perché ha luogo quella che si può chiamare con un termine tecnico l’eterogenesi del valore, in cui il valore non dipende dal risultato che si ottiene giocando, ma dal modo in cui si gioca per ottenerlo. Un esempio semplice può essere il calcio: il fatto che una sfera di cuoio entri in porta o no è tutt’altro che irrilevante per milioni di uomini. Evidentemente, gli italiani non vivono meglio perché hanno vinto il campionato del mondo, eppure, la loro felicità è dipesa da questo valore formale del gioco. Perciò, in questa misura il gioco è per sua natura amatoriale, ossia non produce un aumento di ricchezza, eppure, produce un aumento o una diminuzione di felicità.
Oggi i difensori del carattere amatoriale del gioco hanno ripiegato e sono ormai quasi definitivamente sconfitti. Il motivo di ciò si dice che sia il fatto che i giochi, se praticati a livello più elevato, richiedono una tale applicazione, costanza ed esercizio che soltanto chi vive di rendita potrebbe praticarli se fosse dilettante, altrimenti morirebbe di fame: da qui la necessità di una remunerazione. Per cui, lo spazio amatoriale del gioco si restringe sempre più e sempre più spesso il gioco cessa di essere soltanto interessante e non interessato, divenendo a sua volta interessato per quel che riguarda una sua remunerazione. Trovandomi a Modena, voglio ricordare un esempio assolutamente eccezionale e miracoloso, quello della squadra italiana di bridge, detta Blue Team, di cui era capitano, non giocatore, un celebre penalista di Modena, che si chiamava Carlo Alberto Perroux. Ogni tanto abbandonava i suoi ladri e assassini – come diceva lui – per dedicarsi a questa squadra di bridge. Fu un caso assolutamente eccezionale: per un decennio, tra il 1956 e il 1969, ci furono otto Campionati del Mondo e il Blue Team li vinse regolarmente tutti, nonostante fosse composto integralmente da dilettanti. Il segreto naturalmente era lo spirito di squadra, e l’allenatore è quello che crea la squadra, malgrado gli otto fossero molto diversi tra loro.
La stagione del gioco disinteressato forse è finita per sempre, perlomeno ai massimi livelli, ciò non significa naturalmente che sia destinata a perdersi anche in coloro che rimangono dilettanti perché devono guadagnarsi la vita altrimenti e non potrebbero fare altrimenti, come i grandi scacchisti o i grandi giocatori di bridge. Notate che nel bridge noi diciamo che il gioco riesce in misura della bontà delle regole. E le regole dell’ultimo tipo di bridge furono formulate intorno al 1925, da un discendente di una grande famiglia di imprenditori e discendente di Cornelius Van Derbild, che, durante una lunga traversata in nave, non sapendo cosa fare, si mise a giocare a bridge e ne perfezionò le regole. Da allora non sono mai state cambiate, facendo la fortuna di questo gioco che è cominciata prima della seconda guerra mondiale e che ora va declinando. In Italia, quando c’era questa squadra miracolosa, gli iscritti alla Federazione erano circa venticinquemila, nei paesi scandinavi erano alcune centinaia di migliaia, negli Stati Uniti – quando questi avevano una popolazione di duecento milioni di abitanti – i giocatori di bridge erano trentacinque milioni, cioè un decimo della popolazione. All’aeroporto i facchini riconoscevano dalla fisionomia i nostri grandi giocatori di bridge, come da noi accadeva per Pelé, Di Stefano, o i grandi calciatori. Questa era popolarità, eppure venne fuori da quel ristretto terreno che era questa forma di gioco all’inizio disinteressato. La maggior parte di noi deve lavorare per vivere e non possiamo diventare giocatori remunerati tanto da poter campare. Ma tuttavia questa coincidenza di gioco e, direi, fatica, piuttosto che lavoro, vale la pena che continui a essere coltivata, non soltanto in modo strumentale, per il fatto che il gioco può allenarci a fare dei lavori o a perfezionare il nostro aggiornamento, ma perché è un valore in se stesso. L’unità di gioco e lavoro è un valore in sé, vale non soltanto per il gioco ma anche per il lavoro, per esempio, imprenditoriale. Il grande imprenditore di solito gioca nel senso di essere interessato, e non potrebbe non esserlo, ma gioca anche nel senso di compiacersi di quello che fa, di godere – nel senso migliore della parola – della sua riuscita d’imprenditore. Quindi, anche sotto questo riguardo, è augurabile che gioco e lavoro rimangano uniti e non divisi.