LA RESTITUZIONE IN QUALITÀ
Se
consideriamo che oggi in Italia, come nota Roberto Cecchi nel suo libro I
beni culturali. Testimonianza materiale di civiltà (Spirali), oltre il sessanta per
cento dell’attività edilizia è finalizzato al restauro e al recupero del
patrimonio architettonico esistente, non ci sorprende che il dibattito intorno
ai beni culturali investa non soltanto i musei e le pinacoteche, ma anche un
settore importante dell’impresa come quello edile, che deve seguire norme e
regole complesse, che richiedono l’instaurazione di dispositivi con i vari
attori di ciascun singolo progetto. Quando poi un progetto di recupero
coinvolge intere aree urbane, i fattori che contribuiscono alla sua riuscita
esigono anche il dibattito con i cittadini, che non possono essere più semplici
spettatori di un processo di trasformazione indispensabile e inarrestabile.
Quindi,
non solo gli architetti, gli assessori e gli urbanisti, ma anche i cittadini
sono sempre più chiamati a interrogarsi intorno alla testimonianza materiale di
civiltà che non può più essere delegata al bene culturale in sé, perché
coinvolge, come ci suggerisce l’Autore, il contesto in cui esso è inserito. In
questo senso, l’antico e il nuovo si trovano in uno scambio costante. Ma in che
modo questo scambio può avvenire? Quali sono i criteri del restauro moderno e
quali gli strumenti legislativi di cui occorre tenere conto?
Attraverso
la sua esperienza come soprintendente in varie città, in cui è stato impegnato
nei processi di restauro di alcune fra le più importanti opere d’arte di tutti
i tempi (fra cui l’ultimo restauro della Cena di Leonardo da Vinci), Roberto
Cecchi ci accompagna in un viaggio nell’arte e nell’architettura che dà la
parola alle opere e ci consente di ascoltare i dettagli della storia e della
memoria degli uomini che hanno lavorato alla loro produzione e di quanti le
hanno restaurate, sempre tenendo conto del contesto, dei materiali e degli
strumenti utilizzati.
Così,
per esempio, durante i lavori di restauro nella chiesa di Villa a Castiglione
Olona di Varese, scopre che si tratta di una “piccola isola di Toscana in
Lombardia”, perché per la cupola autoportante è stata utilizzata la stessa
tecnica, la cosiddetta “spina-pesce” – senza l’uso di centine, cioè di
strutture provvisionali in legno – che il Brunelleschi adottò per la cupola di
Santa Maria del Fiore, tecnica da lui inventata e diffusa solo nel Quattrocento
e solo nei dintorni di Firenze. Allora, la chiesa di Castiglione ci parla di
uomini che avevano avuto frequentazione di ser Filippo, il quale, a sua volta,
aveva reinterpretato una tradizione antichissima risalente all’architettura
romana o addirittura alla tradizione costruttiva dell’area mesopotamica.
L’Autore, portando a sostegno un documento del filosofo Gregorio di Nissa,
vissuto nel IV secolo in Anatolia, nota che in quell’area il legname da
costruzione era carente, quindi, “non si potevano fare capriate e, se si voleva
coprire un vano, bisognava ingegnarsi a risolverlo con quello di cui si
disponeva, e cioè pietre, mattoni e malta”.
Tutto
questo ci dice che, come scrive l’Autore, “se guardiamo il nostro patrimonio
culturale anche attraverso i suoi elementi costitutivi, vale a dire i documenti
della materialità, è facile farsi un’idea diversa rispetto a quella che ci
propone la storiografia corrente, che tende a una periodizzazione esasperata,
come se si potesse far coincidere ogni girar di secolo con un cambiamento di
sensibilità e di creatività”.
E,
proprio per restituire il patrimonio artistico e culturale alla civiltà, è
nostro compito la valorizzazione della memoria, che non può avvenire
all’insegna del conflitto e delle dispute tra Ministero e Comuni, tra
architetti e ingegneri, tra l’antico e il moderno, ma attraverso
l’instaurazione di dispositivi in direzione della restituzione in qualità. Non
a caso, il libro di Roberto Cecchi riporta in appendice la relazione della
Commissione Franceschini, indagine sullo stato dei Beni culturali in Italia,
pubblicata nel 1967, per certi versi, purtroppo, ancora attuale, e la Carta
del Restauro, del
1972, dove si enunciano alcuni principi essenziali, fra cui il dovere di ogni
stato membro di fare un inventario dei propri beni culturali, l’esigenza di una
politica integrata fra stato, proprietari e utenti e quella d’incoraggiare le
iniziative private.
Il
valore di ciascuna città, il valore dell’Italia è il valore dei beni culturali
come testimonianza materiale di civiltà. E il compito per ciascuno di noi è il
processo di valorizzazione dei beni culturali, valorizzazione stessa della
memoria come arte e invenzione. Il restauro è esso stesso arte e invenzione,
anziché opera che debba sottostare a una gerarchia di valori che la
classificherebbe come secondaria.
Emerge
dal libro di Roberto Cecchi un approccio del tutto nuovo ai beni culturali, un
approccio in cui importano le cose che si fanno, importa ciò che si aggiunge
senza nulla togliere e in cui valorizzazione non vuol dire, come nota nella
conclusione, “intervento” come perdita di contesto, ma tutto ciò che
contribuisce alla scrittura della memoria.
Emerge
anche un altro modo del restauro, senza più l’idea di fine del tempo, quindi,
senza più l’idea che debbano essere cancellati i segni del tempo per
ripristinare il bene così com’era prima. Se il restauro – come sembra
testimoniare Roberto Cecchi – è restituzione in qualità, allora importa il
processo di valorizzazione della memoria, non la cancellazione di presunti
segni del negativo, importano i dispositivi del fare che s’instaurano lungo la
produzione artistica, da cui lo stesso restauro non è esente.
Il
palazzo storico, anziché essere un oggetto da contemplare, è un documento che
partecipa alla scrittura della storia e della memoria della civiltà. Roberto
Cecchi chiama fabbrica il palazzo. La fabbrica è un dispositivo del fare, dove
l’arte della costruzione si è tramandata nei secoli.
L’arte e
le sedi museali possono contribuire, anche attraverso gli scambi con altri
paesi, all’internazionalismo, essenziale proprio perché il provincialismo non
giova alla città come civitas: una città si costituisce come civiltà solo in quanto
internazionale e intersettoriale, città in viaggio, viaggio di cui i beni
culturali sono testimonianza materiale.