COME INTERVENIRE NEL QUOTIDIANO

Qualifiche dell'autore: 
presidente dell'Ordine degli Architetti della Provincia di Modena

Roberto Cecchi, nel suo libro I beni culturali. Testimonianza materiale di civiltà, ripercorre in una minuziosa ricostruzione le fasi salienti del dibattito che si è sviluppato nel secolo scorso, e in particolare dagli anni settanta, con i lavori della Commissione Franceschini, fino ai giorni nostri con l’entrata in vigore del nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio intorno al concetto di “bene culturale”.

È un saggio che rivela una profonda conoscenza della materia, che si espande dalla riflessione teorica all’esplicitazione pratica di casi singolari, che offrono una palese testimonianza di quanto sia ampia e variabile in tutti i sensi la disciplina della conservazione e del restauro.

Mi trovo d’accordo su alcune enunciazioni proposte all’interno del suo libro. D’altronde, come non esserlo su un approccio progettuale che, nella fase analitica, tenga conto del contesto in cui si dovrà operare, essendo tale procedura attinente al criterio del corretto progettare che dovrebbe essere sempre applicata non solo nei confronti di un bene tutelato.

Ritengo però, prendendo spunto dal commento di Cecchi relativo a quanto espresso dall’architetto Botta in occasione del premio Federico Zeri e riferito all’architettura contemporanea, che “Il dialogo col passato rappresenta una peculiarità della cultura architettonica italiana contemporanea, attraverso cui sono nate opere e indirizzi assolutamente originali, che nel nostro paese si possono identificare con il tema delle cosiddette ‘preesistenze ambientali’, maturato nel secondo dopoguerra dopo una riflessione del tutto singolare di protagonisti come Rogers e Gardella, che vollero segnare una differenza tra il modernismo della cultura architettonica internazionale e la volontà di dialogo col passato”; volontà che non ha saputo evolversi compiutamente, rinunciando spesso a un rapporto dialettico con il tempo presente e ancor di più con il tempo futuro.

Un altro spunto che viene dalla lettura del libro può ricondursi alla tematica del quotidiano rispetto all’eccezionale: è indubbio che gli interventi illustrati sono casi di notevole rilevanza storico culturale, ma che purtroppo rappresentano una piccola percentuale degli interventi che avvengono nel nostro paese. La quotidianità offre un quadro decisamente diverso: i criteri metodologici che i professionisti devono affrontare e talvolta subire in alcuni casi sono molto arbitrari, i tempi burocratici insostenibili, anche in presenza di documentazione dettagliata e conforme alle richieste dei soprintendenti, le valutazioni di impegno economico, basate anche correttamente sull’analisi del contesto, portano a scegliere, nel caso dei privati, la strada del completo degrado anziché il risanamento o il recupero.

Giustamente, tutto questo non può essere imputato soltanto a chi ha il compito di svolgere un ruolo di salvaguardia, ma certamente pensare in termini di contesto pone problematiche che richiedono un paziente lavoro di condivisione e comunicazione degli obiettivi che si vogliono perseguire. Ovvero, nel tempo, il contesto muta, si modifica o viene modificato, le certezze dell’oggi non sono più tali dopo poco tempo, e quindi accetto volentieri l’enunciazione fatta dall’architetto Cecchi di trasformare gli “stati di natura”, ovvero fenomeni non soggetti alla possibilità di modifica, in elementi variabili e quindi modificabili. E qui vorrei aprire una disquisizione su un dibattito che ritengo sempre attuale, ovvero l’intoccabilità del tessuto urbano storico e/o dei manufatti edilizi che lo compongono. Certamente, in quest’epoca, la salvaguardia degli edifici storici non ammette sostanzialmente distinzione tra i loro valori architettonici se non tramite la classificazione dell’intervento a cui sono assoggettati. Non alberga certo in me il furore del piccone demolitore, ma i centri storici sono l’evoluzione in alcuni casi cannibalesca del mutare delle condizioni economiche, funzionali e rappresentative della città e ritengo quale esempio eclatante di tale evoluzione la costruzione sullo stesso sito di nuove o più ampie cattedrali, riutilizzando a volte se non inglobando in altre i precedenti edifici.

Gli esempi riportati dall’architetto Cecchi (il Teatro alla Scala di Botta, il Carlo Felice di Rossi, il nuovo ingresso degli Uffizi di Isozaki) mi permetto in modo provocatorio di definirli un po’ di maniera, in quanto le architetture espresse non si distolgono molto da quel criterio precedentemente espresso di ricerca del dialogo col passato. Fortemente diverso forse e più intenso sarebbe stato il dibattito se si fossero proposti interventi che avessero avuto l’ardire della cupola del Reichstag di Berlino o edifici come quelli di Gehry per Praga, o il Museo di Foster a Nimes. Infatti, uno dei temi principali è quello di confrontarsi sulle modalità e i criteri da adottare, per consentire l’inserimento di integrazioni o nuove costruzioni all’interno di complessi storici consolidati. In questo senso sarebbe auspicabile che i soggetti coinvolti, dal progettista agli organi di tutela, prendessero concordemente atto del fatto che ogni ragionamento deve scontare l’assenza di canoni teorici a cui fare riferimento. E qui vorrei riportare un pensiero di Francesco Dal Co (“Casabella”, n. 754, 2007): “Le decisioni riguardanti la conservazione del patrimonio culturale sono risultati di giudizi variabili e contingenti, nonché del mutare delle mentalità collettive che li accompagnano. Discende da ciò il fatto che anche le procedure normative e amministrative in materia di conservazione di beni considerati di rilevanza storica sono il portato di scale di valori instabili. Questi metri di valutazione, però, condividono il pregiudizio che tende ad attribuire un valore preminente al tempo trascorso rispetto a quello presente, alla conservazione rispetto alla trasformazione, al persistere rispetto al divenire”.