BRAINWORKING, NUOVE TECNOLOGIE E SECONDO RINASCIMENTO
Il mio intervento si svolge in tre parti: la prima parla di transizione, la seconda di convergenze e la terza di costruzioni.
Tra le grandi transizioni che stiamo vivendo, ho scelto quella che è stata anticipata dall’economista William Baumol nel 1987. Baumol ha definito due tipi di lavoro: il lavoro strumentale e il lavoro prodotto. Il lavoro strumentale serve a produrre qualcosa di esterno al lavoro stesso e l’uomo che lo fa è uno strumento per arrivare a qualcos’altro. Il lavoro strumentale è un lavoro meccanico, manuale e, a un certo momento, può essere rimpiazzato da una macchina. Infatti, se pensiamo a Tempi moderni, oggi non esistono più i tipi di lavoro che lì erano rappresentati, poiché erano strumentali e sono stati rimpiazzati dalle macchine, dai robot. Nel lavoro come prodotto, invece, quello che si fa è già il prodotto. Non si lavora strumentalmente per fare un altro prodotto ma, direttamente, il lavoro stesso è il prodotto. Per esempio, il parrucchiere taglia i capelli e il suo lavoro è il suo prodotto: ha tagliato i capelli.
Per Baumol, nelle condizioni del mondo attuale, il lavoro strumentale dovrebbe man mano scomparire per lasciare il posto al lavoro prodotto. E, in effetti, vediamo che il lavoro strumentale sta scomparendo: quasi non ci sono più operai nel senso antico del termine, salvo in Cina, ma ci sarà un momento in cui anche in Cina scompariranno. Il lavoro strumentale è un lavoro in via di sparizione, rimarrà solo il lavoro come prodotto. Ma che cos’è il lavoro come prodotto? Tutte quelle cose che non sono strumentali: l’arte, la ricerca, il brainworking. Il lavoratore di cervello, quello che pensa, quello che trova soluzioni, quello che risolve i problemi nelle imprese, quello è un lavoratore prodotto. Il manager, l’imprenditore sono lavoratori prodotto. Gli imprenditori lavorano anche sabato e domenica, perché il loro lavoro non è definito come strumentale: l’imprenditore fa il lavoro prodotto, lo fa quando occorre e quando trova le condizioni per farlo. La medicina, il divertimento, il calcio sono un lavoro prodotto.
Oggi, non possiamo non sorridere quando leggiamo le parole di Adam Smith, nella Ricchezza delle nazioni, dove dice che la produzione è data dai lavori strumentali e poi fa un lunghissimo elenco di tutti i lavori non produttivi: l’esercito, l’amministrazione pubblica, i preti non sono produttivi, anche i medici, che Smith mette sullo stesso piano di buffoni e cantanti d’opera (Luciano Pavarotti sarebbe stato classificato nella categoria dei non produttivi). Anche Karl Marx aveva ripreso questa definizione di ciò che è produttivo: il lavoro che fabbrica beni materiali e strumentali è il vero lavoro, l’altro non è lavoro.
Qual è la grande rivoluzione del nostro tempo? Che oggi rimangono solo i lavori che Adam Smith considerava non produttivi, mentre quelli chiamati produttivi stanno per scomparire. Riorganizzare la società intorno a questo è una cosa complessa. Per esempio, Mario Valerio Guerzoni nel suo intervento in questo forum parlava di nuove forme di produttività. E, infatti, non c’è produttività nel lavoro prodotto. Lo stesso Baumol, nel suo articolo del 1987, scriveva che non si può domandare a un’orchestra, allo scopo di aumentare la produttività, di eseguire la Nona sinfonia di Beethoven in sette minuti invece che in venticinque. Lo stesso vale per un artista: non si può dire che tre ore di Picasso siano paragonabili a tre ore di un qualsiasi altro pittore. Quindi, occorre ripensare l’economia quando la produttività cambia il senso perché lavoro e prodotto coincidono.
Un’altra grande trasformazione è quella a lungo termine della società capitalista. Nella fase iniziale della rivoluzione industriale, società industriale e capitalismo andavano di pari passo. Oggi stiamo vivendo nella società dell’informazione, nella società della conoscenza e in una nuova economia, l’economia sostenibile. Questo è il secondo rinascimento: una società basata sulla conoscenza, basata sul lavoro prodotto e sostenibile; questo è l’ideale cui dobbiamo fare riferimento per costruire il futuro.
E veniamo alla seconda parte dell’intervento, quella sulle convergenze, le evoluzioni necessarie a produrre i grandi cambiamenti. Quando la società cambia, deve intervenire un certo numero di convergenze. Quali sono le convergenze constatabili oggi? Una grande convergenza è quella che prepara la società della conoscenza: la convergenza tra le varie tecnologie – bio, nano, info, cogno. Gli americani la chiamano convergenza Nbic, la convergenza della ricerca, a livello dell’infinitamente piccolo, tra organico e inorganico, tra animato e inerte. Un germe è come un atomo, come un bit. Questa convergenza porta a una nuova ridefinizione del campo scientifico: le discipline che nei secoli erano andate sempre più separandosi, oggi stanno cominciando a ritornare a una convergenza. La convergenza delle discipline scientifiche è accompagnata da quella delle tecnologie, che sono il modo per trasformare la scienza in applicazioni pratiche. Le nuove ingegnerie sono ingegnerie convergenti, non servono più ingegneri chiusi nelle loro specializzazioni, ma ingegneri che sanno trarre vantaggio dalla nano, dalla bio, dalla info e dalla cogno. Ma, mentre si parla comunemente di nanotecnologia, biotecnologia e tecnologia dell’informazione, la cogno, che è costituita dalle scienze cognitive, non è ancora una tecnologia, è ancora nel campo della scienza. Qual è la nuova convergenza a livello della cogno? È la convergenza tra la neuroscienza – la scienza che studia il funzionamento del cervello, che sta facendo progressi straordinari con la possibilità d’individuare i processi nel cervello, di fotografarli, di vederli –, l’intelligenza artificiale, che parte dall’info, e le scienze sociali, la psicologia, la filosofia, la linguistica. Il risultato è una convergenza scientifico-tecnologica verso il concetto di scienze cognitive. Io ho partecipato di recente al gruppo europeo che ha preparato l’analisi della convergenza scientifica e tecnologica per il Settimo Programma Marco e abbiamo constatato che questa convergenza sta incominciando a funzionare. Per esempio, abbiamo visto in Norvegia, a Oslo, che una ragazzina nata senza braccia, senza gambe e senza parola, adesso, attraverso impianti cerebrali che consentono una comunicazione con un computer, fa muovere delle mani che eseguono dei movimenti. Questo vuol dire che possiamo sempre più toccare il cervello e avanzare nell’intersezione di queste conoscenze. Gli industriali presenti tra il pubblico si chiederanno a che cosa serva tutto questo. Serve perché le convergenze che stanno intervenendo andranno in due direzioni: una è quella che gli americani chiamano Human Enhancement, che serve a migliorare le funzioni dell’uomo – il rapporto alla National Science Foundation che ha fatto partire questa riflessione si chiama Convergence for Human Enhancement (Convergenza Tecnologica per il miglioramento dell’Uomo). Effettivamente, si tratta proprio di questo: come arrivare, attraverso trasformazioni genetiche di nano, bio, info e cogno-tecnologia, a migliorare la vita umana, ad allungare la vista meglio, per esempio, nella visione notturna, a riparare arti distrutti, per esempio negli incidenti, a migliorare la capacità di acquisizione della mente, a creare memorie artificiali e incorporarle. Tanto che è sorta una corrente filosofica che si chiama transumanesimo, che parla del cyber uomo. Sfortunatamente, il governo americano, nel rapporto della National Science Foundation, insiste essenzialmente sulle applicazioni militari, onde utilizzare le tecnologie della convergenza per migliorare la performance del soldato: l’obiettivo globale è il soldato invincibile. La risposta europea è stata il Social Technical System: bisogna che la convergenza venga utilizzata per migliorare non solo le funzioni dell’uomo in generale, ma sopra tutto le funzioni sociali e, in particolare, la sanità. Infatti, queste nuove tecnologie possono cambiare la sanità perché daranno la possibilità a ciascuno di monitorare il proprio stato di salute in ciascun istante, un contatto elettronico. In questo momento, potrei ricevere, direttamente nel mio cervello, una comunicazione da un sensore interno a un calcolatore esterno, che mi avverta che sto parlando troppo in fretta e il mio cuore sta stancandosi troppo.
Per concludere, voglio situare le ipotesi che ho avanzato in una prospettiva di lungo termine, ripercorrendo alcune tappe della rivoluzione industriale. 1771: viene aperto il primo altoforno in Gran Bretagna; 1829: l’età del vapore e delle ferrovie; viene effettuato il test della macchina a vapore sulla linea ferroviaria tra Liverpool e Manchester; 1875: l’età dell’acciaio, dell’elettricità, dell’ingegneria pesante: a Pittsburgh si apre la Carnegie Bessmer Steel Plant; 1908: l’età del petrolio, dell’automobile e della produzione di massa; il primo modello di automobile esce dallo stabilimento della Ford a Detroit; 1971: comincia l’era dell’informazione e della telecomunicazione; il microprocessore di Intel si annuncia a Santa Clara in California. Il 2034 sarà The Age of Knowledge (l’età della conoscenza e della convergenza Nbic)? Quale sarà il fenomeno distintivo di questo cambiamento? Io avrò a quel tempo novantasei anni. In virtù delle nuove tecnologie sarò in piena forma e, quindi, potrò osservare quello che succede. Vi racconterò: c’incontreremo tutti nel 2034.
Il futuro è molto bello e non può fermarci il problema della Cina, né quello dell’euro o di altri fenomeni più o meno eclatanti. Ci sono tantissime cose da fare, la strada è lunga e c’è ancora molto cammino. Ma, forse c’è ancora una domanda: nel 1771, la rivoluzione industriale vede protagonista la Gran Bretagna, nel 1829 Liverpool e Manchester, nel 1875 la Pennsylvania, nel 1908 il Mitchigan, nel 1971 la California. E nel 2034 a chi toccherà? Potrebbe benissimo essere l’Asia, sarebbe anche geograficamente corretto. Ma speriamo che sia l’Europa.